Beati i balletti che non hanno bisogno d’eroi

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L’opinione comune in merito al ruolo dei personaggi maschili nei balletti può essere riassunta in due stereotipi, agli estremi di una polarizzazione ben lontana dalla realtà dei fatti. I più pensano che il loro ruolo sia quello del porteur, mero appoggio della ballerina, impegnata in vorticose pirouettes e spesso sospesa in leggiadre prese mozzafiato. L’altra semplificazione si affida invece a una rosa ristretta di opere, in cui il protagonista maschile ricopre il ruolo dell’eroe, che salva la sua bella per vivere per sempre “felici e contenti”.

Se quest’ultimo ritratto può valere per quasi tutto lo sviluppo di un balletto come il Don Quixote, dove il protagonista Basilio, prima di sposare la bella Kitri, attraversa mille peripezie senza però mai perdere la sua grinta focosa, non riesce tuttavia a descrivere la trama di altre pietre miliari del balletto classico, quali ad esempio la celeberrima Giselle. Nel primo atto Albrecht, promesso sposo della principessa Bathilde, finge di amare la dolce e ingenua contadina Giselle, che, una volta accortasi del crudele inganno, ne morirà di crepacuore. La parte più emozionante dell’opera rimane però il secondo atto. L’incipit in tono minore, così diverso dalla briosa apertura di sipario del primo, sottolinea un cambiamento interiore dei protagonisti, soprattutto di quello maschile. L’entrata del conte non è più né spavalda, né tantomeno trionfale. Al contrario, si riduce ad una lunga camminata in diagonale che attraversa l’intero palco, immagine di una Bildung che giunge alla sua piena maturazione non appena Albrecht contempla esterrefatto la tomba sotto cui giace la bella contadina, morta a causa a sua. Questo quadro, struggentemente patetico, si conclude con la preghiera del nobile, in lacrime, pentitosi del suo comportamento machista al punto da sdraiarsi quasi esanime sulla pietra che copre quella che doveva essere una semplice distrazione da un fidanzamento pianificato a tavolino.

Questo balletto pare dialogare, a quasi un secolo di distanza, con la piéce firmata da Roland Petit: Le jeune homme et la mort (1946). Il rapporto fra il personaggio maschile e femminile viene mediato nuovamente dalla seduzione e si risolve di nuovo con un macabro finale, ma i ruoli sono qui invertiti. L’inizio, scandito dalle sublimi note di J.S. Bach, vede un giovane adulto scompostamente coricato sul letto che fuma una sigaretta. A questo quadro d’ozio iniziale segue una variazione mozzafiato, che trascina il jeune homme attraverso tutto il palco, occupato in una ricerca tanto spasmodica quanto vana, che è subito interrotta dalla comparsa della Morte, personificata da una splendida ragazza dai guanti neri e da un semplice vestito color giallo acceso. La belle dame sans merci seduce immediatamente il giovane, lanciandosi in una serie di passi sfrenati, a tratti osceni, tipici della poetica di Petit. Una caccia amorosa che non si concluderà, come in Giselle, con un improvviso crepacuore. Il coreografo insiste spietatamente sulla dimensione della pazzia, che pur incombe alla fine del primo atto del balletto ottocentesco, e sottolinea tutti gli aspetti più macabri di questa folle quête: l’uomo è tutt’altro che eroe, è un burattino senza volontà, che si fa condurre passivamente al patibolo dove egli stesso s’impiccherà. Il finale ribadisce questa sottomissione. La femme fatale, ora vestita di un lungo abito bianco, quasi nuziale, e avvolta in uno scialle rosso, copre il volto del giovane, ormai defunto, con la maschera di un teschio, guidandolo verso il fondale in una lunga marcia che sempre lei interromperà con un semplice gesto della mano.

Questo dialogo fra generi (e fra secoli) ci guida verso un’altra perla della danza classica, La bella addormentata nella coreografia di Rudolf Nureyev. Fra le varie modifiche alla versione ottocentesca proposte dall’artista russo, va sicuramente ricordata l’introduzione, nel secondo atto, di quello splendido adagio che ancora oggi rimane una delle punte di diamante del repertorio classico maschile. Dopo essersi congedato dalla battuta di caccia, il principe Desiré rimane solo nella foresta. La melodia tchaikowskyana pare sottolineare la fragilità di questo personaggio, in cerca del fiabesco “vero amore” che riuscirà a trovare nella bella Aurora, apparsa in una visione, grazie alla Fata dei Lillà. L’adagio si colloca proprio nel momento in cui il sogno svanisce e il principe, nuovamente solo, esprime la sua passione, ma anche – e soprattutto – il terrore che la principessa rimanga per lui sempre e solo un’immagine onirica. I virtuosismi della variazione si concludono in maniera totalmente diversa rispetto agli altri assoli maschili. Il primo ballerino termina sì in ginocchio, ma le braccia non sono nella tradizionale grande posa, né pone fine a un salto energico da repertorio. Al contrario, nelle ultime battute, il danseur retrocede dal proscenio, con degli jeté alla seconda e, quasi stremato, scende nella posa finale, con le braccia basse e lo sguardo quasi supplichevole nei confronti del pubblico che ha seguito il suo lungo e stupendo monologo interiore. Desiré, mettendo a nudo i propri sentimenti, si distacca dalla figura dell’eroe sempre vincente: è una presa di coscienza sofferta, ma necessaria affinché il principe possa finalmente giungere alla meritata apoteosi del terzo atto, insegnandoci che i lieto fine migliori non spettano ad eroi monolitici e irreali, ma a chiunque sappia prendere atto delle proprie fragilità.

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