Perché non riusciamo più a leggere?

tempo di lettura: 10 minuti

L’anno scorso ho letto quattro libri.

Il motivo di questo numero così basso è, probabilmente, lo stesso per cui voi stessi avete letto, l’anno scorso, meno libri di quanti avreste dovuto: trovo sempre più difficile concentrarmi sulle parole, sulle frasi, sui paragrafi, figuriamoci sui capitoli. I capitoli spesso hanno pagine su pagine di paragrafi, il che sembra un quantitativo spaventoso di parole su cui concentrarsi, esclusivamente, senza che accada nient’altro nel frattempo. Una volta finito un capitolo, poi, si deve arrivare alla fine di un altro capitolo e, di solito, di un mucchio di altri, prima di poter dire finito, e passare al prossimo. Il prossimo libro. La prossima cosa. La prossima possibilità. Avanti, avanti, avanti.

Sono un ottimista

Ciononostante, sono un ottimista. La maggior parte delle sere, l’anno scorso, sono andato a letto con un libro – cartaceo o ebook – e ho cominciato. A leggere. Leg. Ge. Re. Una parola dopo l’altra. Una frase. Due frasi.

Forse tre.

E poi… Avevo bisogno solo di un pochino di qualcos’altro. Qualcosa per farmi restare a galla. Qualcosa per calmare la smania di sottofondo: solo un’occhiata veloce alle email sul telefono; scrivere e cancellare una risposta a un tweet divertente di William Gibson; trovare e aprire un link a un articolo veramente, veramente buono sul New Yorker, o, anche meglio, sulla New York Review of Books (del quale potrei perfino leggere i tre quarti, se è davvero un pezzo così buono). E poi di nuovo le email, giusto per essere sicuri.

Poi un’altra frase. E siamo a quattro.

“I fumatori più ottimisti rispetto alle proprie capacità di resistere alla tentazione sono quelli che più probabilmente subiranno una ricaduta quattro mesi dopo, e ci sono scarse probabilità che le persone che seguono una dieta con troppo ottimismo perdano peso.” (Kelly McGonigal: The Willpower Instinct)

Leggere un libro quattro frasi al giorno richiede un sacco di tempo.

Ed è spossante. Di solito mi addormentavo a metà della frase numero 5.

È da un po’ che ho notato questo schema di comportamento, ma credo che il calcolo dei libri finiti l’anno scorso sia stato il più basso di sempre. È stato profondamente scoraggiante, soprattutto perché la mia vita professionale ruota proprio intorno ai libri: ho lanciato LibriVox (audiolibri gratis e nel public domain) e Pressbooks (una piattaforma online per realizzare libri cartacei o digitali), e ho collaborato alla curatela di un libro sul futuro dei libri.

Ho dedicato la mia vita ai libri, in un modo o nell’altro, credo in loro, eppure non ero più in grado di leggerli.

Non sono il solo.

Come possono sopravvivere i libri, quando la gente del New Yorker non riesce a concentrarsi abbastanza a lungo da ascoltare per intero una canzone?

Poco tempo fa ho ascoltato un’intervista sul podcast del New Yorker. Il conduttore stava intervistando l’autore e fotografo Teju Cole.

Conduttore:

“Una delle sfide di oggi nell’ambito della cultura è, per esempio, ascoltare una canzone dall’inizio alla fine: siamo così distratti. Lei è capace di prestare la stessa attenzione profonda alle cose, di dedicarsi alla cultura in quel modo?”

Teju Cole:

“Sì, moltissimo.”

Quando ho sentito questo scambio, mi è venuta voglia di abbracciare il conduttore. Non riusciva nemmeno ad ascoltare una canzone per intero prima di lasciarsi distrarre. Figuratevi cosa deve fargli provare la pila di libri sul suo comodino.

Mi è anche venuta voglia di abbracciare Teju Cole. Sono persone come il signor Cole a far sperare che rimarrà davvero qualcuno a insegnare ai nostri figli come si leggono i libri.

Al passo con la distrazione

I miei problemi nel leggere libri – l’ineluttabile canto della sirena della dose digitale di nuove informazioni  – valevano anche per il resto della mia vita.

Mia figlia di due anni, saggio di danza. Tutù rosa. Orecchie da gatto. Lei e altri cinque bambini della stessa età, di fronte a una folla di settantacinque genitori e nonni, stavano facendo uno spettacolo. Potete immaginarvi il resto. Avrete visto i video su Youtube, forse vi ho perfino mostrato i miei. L'”adorabilità” era a un livello estremo, uno di quei momenti che definiscono un certo tipo di orgoglio genitoriale. Mia figlia non ballava neanche, gironzolava semplicemente per il palco guardando il pubblico con occhi grandi come possono esserlo solo quelli di una bimba di due anni che fissa un branco di sconosciuti. Non importava che non stesse ballando, ero così orgoglioso. Ho fatto fotografie e video, con il telefono.

E, per ogni eventualità, ho controllato le email. Twitter. Non si sa mai.

Mi trovo in queste situazioni piuttosto spesso: controllo l’email o Twitter o Facebook senza niente da guadagnare se non lo stress di un messaggio di lavoro cui comunque in quel momento non posso rispondere.

Leggere sul telefono mentre mia figlia fa qualcosa di straordinario proprio lì accanto mi fa sentire vagamente sporco, come se fumassi di nascosto una sigaretta.

O del crack.

Una volta, stavo leggendo sul cellulare mentre mia figlia, quella di quattro anni, stava cercando di parlarmi. Non avevo davvero sentito cosa mi avesse detto e, in ogni caso, stavo leggendo un articolo sulla Corea del Nord. Lei mi ha afferrato il viso con entrambe le mani, mi ha tirato verso di sé. “Guardami in faccia quando ti parlo”, mi ha detto.

Ha ragione. Dovrei.

Quando trascorro del tempo con amici o in famiglia, spesso sento come una pulsazione profonda provenire da quella lamina perfettamente progettata di acciaio inossidabile, vetro e rari metalli terrestri lì nella tasca. Toccami. Guardami. Potresti trovare qualcosa di meraviglioso.

Questa malattia non è limitata a quando cerco di leggere o a eventi della vita di mia figlia che non si ripeteranno mai più.

Al lavoro, la mia concentrazione viene costantemente rotta: finire un articolo (questo, in realtà), rispondere alla richiesta di quel cliente, rivedere e commentare i nuovi design, ripulire la copia sulla pagina “Su di noi”. Contattare Tizio e Caio. Le tasse.

Tutti questi compiti, fondamentali per il mio sostentamento, scadono in secondo piano più spesso di quanto voglia ammettere per un’occhiata veloce a Twitter (per lavoro) o a Facebook (sempre per lavoro), o a un articolo sugli insiemi di Mandelbrot (che ho finito di leggere in questo momento).

Le email sono la cosa peggiore, ovviamente, perché è lì che il lavoro diventa reale, e anche se non è il lavoro che dovresti fare ora è probabilmente lavoro più facile di quello che stai facendo in questo momento. Il che significa che, in un modo o nell’altro, finisci per fare quello invece di  ciò che dovresti. E solo allora tornerai al compito su cui ti saresti dovuto concentrare fin dall’inizio.

Dopamina e digitale

A quanto pare gli strumenti digitali e i software sono accuratamente progettati per addestrarci a prestare loro attenzione, indipendentemente da quello che dovremmo fare in realtà. Il meccanismo, nato da recenti studi neuroscientifici, funziona più o meno così:

  • Le nuove informazioni producono una scarica di dopamina, un neurotrasmettitore che fa sentire bene, al cervello.
  • La promessa di nuove informazioni obbliga il cervello a ricercare quella scarica di dopamina.

Attraverso la risonanza magnetica si può vedere che i centri di piacere del cervello si illuminano di attività quando arrivano nuove email. Quindi, ogni nuova email che arriva dà un picco di dopamina. Ciascuno di questi picchi, per quanto modesti, rafforza la memoria cerebrale per cui controllare le email produce un picco di dopamina, e i nostri cervelli sono programmati per ricercare proprio ciò che ci procuri queste scariche. Per giunta, questi schemi di comportamento iniziano a creare dei percorsi neuronali in modo da diventare abitudini inconsce: lavoro su qualcosa di importante, prurito al cervello, controllo email, dopamina, aggiorna, dopamina, controllo Twitter, dopamina, di nuovo al lavoro. Ciò avviene ancora e ancora, e ogni volta l’abitudine si radica sempre di più nelle nostre strutture cerebrali.

Come può competere un libro?

Soddisfarci a morte

In un famoso studio, al cervello di alcuni ratti sono stati collegati degli elettrodi. Quando i ratti premevano una leva, una piccola scarica veniva rilasciata nella zona cerebrale che stimola il rilascio di dopamina, una sorta di leva del piacere.

Data una scelta tra cibo e dopamina, i ratti sceglievano la dopamina, spesso fino a sfinirsi e morire di fame. Sceglievano la dopamina al sesso. In alcuni studi, i ratti premevano la leva per la dopamina 700 volte all’ora.

Noi facciamo lo stesso con l’email. Aggiorna. Aggiorna.

Non c’è nessun universo bellissimo al di là del pulsante di refresh, eppure è la chiamata di quel pulsante che continua a distogliermi dal lavoro che sto facendo, dai libri che voglio leggere.

Perché i libri sono importanti?

Quando ripenso alla mia vita, sono in grado di selezionare alcuni libri che mi hanno formato, intellettualmente, emotivamente, spiritualmente. I libri sono sempre stati una via di fuga, un’esperienza formativa, una salvezza, ma oltre a tutto ciò, e più di tutto ciò, alcuni libri sono diventati, con il tempo, una sorta di colla che tiene insieme la mia comprensione del mondo. Vedo questi libri come nodi di conoscenza ed emozioni, nodi che sostengono il tessuto della mia identità. I libri, almeno per me, tengono insieme chi sono.

I libri, in modi diversi dalle arti visive, dalla musica, dalla radio, perfino dall’amore, ci costringono ad attraversare i pensieri di un’altra persona, una parola alla volta, per ore e per giorni. Condividiamo la nostra mente, almeno per un po’, con quella dell’autore. Questo medium richiede una lentezza e una riflessione forzata che sono uniche. I libri ricostruiscono i pensieri di qualcun altro nella nostra testa, e forse è proprio questa mappatura in scala 1:1 delle parole di un altro, e delle parole soltanto, senza stimoli esterni, a dare ai libri il loro potere. I libri ci costringono a lasciare che i pensieri di un altro si approprino completamente della nostra mente.

I libri non solo semplici mezzi per trasferire conoscenza ed emozione, bensì strumenti speciali che spianano un io su un altro, che permettono di provare come un abito idee ed emozioni altre.

Questa soppressione dell’io è essa stessa una forma di meditazione, e benché i libri siano sempre stati importanti per me nei loro meriti (pre-digitale), ha iniziato a insinuarsi in me l’idea che “imparare di nuovo a leggere libri” possa essere anche un modo di svezzarmi da questi detriti digitali imbevuti di dopamina, da questa inondazione di informazioni digitali priva di significato, il che avrebbe un duplice beneficio: leggerei di nuovo e riavrei indietro la mia mente.

E, spesso, vi sono universi bellissimi dietro la copertina di un libro.

I problemi con il digitale

Le ultime ricerche neuroscientifiche confermano molto di ciò che noi malati di sovraccarico digitale sappiamo innatamente. Per esempio, che il multitasking efficace non è che un mito. Il multitasking ci rende più stupidi. Secondo lo psicologo Glenn Wilson, le perdite cognitive derivate dal multitasking sono equivalenti a quelle del fumare erba. [AGGIORNAMENTO: grazie a Liza Daly  per avermi fatto notare che Glenn Wilson ha affermato pubblicamente che questo studio era parte di un lavoro pagato di pubbliche relazioni e mal rappresentato nei media. Cfr.: http://www.drglennwilson.com/Infomania_experiment_for_HP.doc%5D.

Ciò è negativo per numerose ragioni: ci rende meno efficienti al lavoro, il che significa o che riusciamo a concludere di meno, o che abbiamo meno tempo da dedicare ad altre cose, o entrambe.

“Trovarsi in una situazione dove ci si sta cercando di concentrare su un compito mentre un’email rimane non letta nella casella in entrata può ridurre il QI di 10 punti”. (The Organized Mind, di Daniel J Levitin)

È però anche peggio di così, perché anche il costante passare da una cosa all’altra risulta estenuante.

Le mie giornate meno produttive, quelle in cui trascorro la maggior parte del tempo a passare da progetti a email a Twitter a qualunque altra cosa, sono anche quelle più stancanti per me. Una volta pensavo che la mia spossatezza fosse la causa della mia mancanza di concentrazione, ma sembra che sia vero l’opposto.

“Ci vuole più energia per passare l’attenzione da compito a compito. Concentrarsi, invece, ne richiede meno. Ciò significa che le persone che organizzano il proprio tempo in modo da potersi concentrare non solo otterranno più risultati, ma saranno anche meno esaurite da un punto di vista neurochimico una volta terminato il lavoro.” (The Organized Mind, di Daniel J Levitin)

Definire il problema

Abbiamo quindi identificato il problema (seppur a grandi linee):

  1. Non riesco a leggere libri perché il mio cervello è stato addestrato a volere una costante scarica di dopamina, che un’interruzione digitale mi garantirà.
  2. Questa dipendenza da dopamina digitale implica che ho dei problemi a concentrarmi: sui libri, sul lavoro, sulla famiglia e gli amici.

C’è di più, però.

E non dimenticatevi della televisione

Viviamo in un’età dell’oro per la televisione, indubbiamente. Ciò che viene prodotto al giorno d’oggi è di ottima qualità. E in gran quantità.

Negli ultimi anni, la mia routine serale è stata una variazione di: tornare esausto dal lavoro; assicurarmi che le bambine abbiano mangiato; assicurarmi di mangiare io stesso; mettere a letto le bambine; sentirmi esausto; accendere il computer per guardare la televisione (della nuova età dell’oro); trafficare con le email di lavoro e, in generale, cincischiare mentre la tv dell’età dell’oro consuma solo il 57% della mia attenzione; essere un disastro sia a guardare la tv, sia a rispondere alle email; andare a letto; cercare di leggere; controllare le email; provare di nuovo a leggere; addormentarmi.

“Coloro che leggono posseggono il mondo, coloro che guardano la televisione lo perdono.” (Werner Herzog)

Non so se Werner Herzog abbia ragione, ma so per certo che non direi mai ciò che dico dei libri a proposito della televisione, neanche per i prodotti di qualità di cui oggi c’è tanta abbondanza. Non esistono programmi o serie televisive che siano dei nodi di sostegno della mia comprensione del mondo. Il mio rapporto con la televisione, semplicemente, non è lo stesso di quello che ho con i libri.

Quindi, cambiamo

Quindi, a partire da gennaio, ho iniziato a fare dei cambiamenti. Quelli più importanti sono:

  1. Niente più Twitter, Facebook o lettura di articoli durante la giornata di lavoro (difficile)
  2. Nessuna lettura random di notizie (difficile)
  3. Nessun computer o smartphone in camera da letto (facile)
  4. Niente tv dopo cena (a quanto pare, facile)
  5. Invece della tv, andare direttamente a letto e iniziare a leggere un libro, di solito su supporto digitale (a quanto pare, facile).

La cosa scioccante è stata la velocità a cui la mia mente si è riabituata a leggere libri. Mi aspettavo di dover faticare per concentrarmi, ma non è stato così. Con meno input digitali (soprattutto, niente tv prima di dormire), tempo in più (di nuovo, niente tv) e senza strumenti digitali tentatori a portata di mano, c’erano più tempo e spazio perché la mia mente si accomodasse in un libro.

Che sensazione meravigliosa.

Sto leggendo più libri ora di quanto io abbia fatto in anni. Ho più energia e più concentrazione di quante ne abbia avute per troppo tempo. Non ho, però, ancora ripreso il controllo della mia dipendenza da dopamina digitale, anche se ci sto lavorando. Credo che leggere libri mi stia aiutando a riaddestrare la mia mente alla concentrazione.

E i libri, a quanto pare, sono sempre la stessa cosa meravigliosa che erano una volta. Li posso leggere di nuovo.

Le email di lavoro, però, rimangono un problema. Se avete suggerimenti, sono i benvenuti.

 

Traduzione da Hugh MacGuire, Why can’t we read anymore?

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2 pensieri su “Perché non riusciamo più a leggere?

  1. Il multitasking segnala un sovraccarico di responsabilità e da stanchezza cerebrale perché se ti trovi in un contesto di scaricabarili tutto diventa più pesante, la posta elettronica è sempre stata utile ma gli o le scaricabarili non sono utili a nessuno o a niente, in Italia ce ne sono a bizzeffe. Vivono e dicono di lavorare ma non si assumono mai le loro responsabilità.

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