Arte, moda e conflitto: come indossare la propria prigione

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Giugno 1880: a Cuesmes, un tormentato Vincent van Gogh racconta, in una lettera indirizzata al fratello Théo, il terribile senso di angoscia e di estraneità che da tempo lo opprime, e a cui soltanto lui, il principale corrispondente della sua vita, riesce in qualche modo a dare sollievo.

Quella in cui si ritrova Vincent è una prigione sociale dalla quale non riesce in alcun modo a evadere: a dimostrazione dell’obbligata incomunicabilità che lo affligge, concorrono tanto l’irrefrenabile ma irrealizzabile voglia di agire da parte dell’artista, quanto l’impellente necessità di affermarsi all’interno di una società che, tuttavia, lo emargina e lo isola, proprio come si fa con un uccello in gabbia. L’inestinguibile sete di comunità di un’anima incompresa, la feroce battaglia tra individualità e collettività: l’ossessiva disperazione di una persona costretta al sacrificio, di un essere umano imprigionato nella propria follia.

È un isolamento fisico, ma anche psicologico, quello del pittore olandese. È la storia di un artista alle prese con i suoi conflitti interiori, di un animo troppo grande per infiltrarsi tra le strette sbarre di quella prigione che chiamiamo corpo: è la storia di tutti noi, in fondo.

C’è qualcosa, però, che è riuscito a insinuarsi anche nella mente di una società tanto riluttante verso qualsiasi forma di cambiamento. Si tratta del fulcro espressivo dell’opera di Van Gogh, del cuore pulsante di Vincent: è un amore per la vita permeato dalla triste consapevolezza di non poter essere capito né compreso da nessuno al mondo. Questo, in fin dei conti, emerge dai suoi dipinti: è il mancato scambio di sguardi tra i commensali ne I mangiatori di patate, è il filtro deformante che stravolge la prospettiva ne La camera di Vincent ad Arles, è, infine, il punto in cui si interrompono le tre strade del Campo di grano con volo di corvi, straziante grido di dolore di un poeta ormai naufrago nella propria follia.

Ma l’inascoltato appello di Van Gogh non è l’unico esempio di espressione pittorica di una realtà interna pervasa dal conflitto: basti anche solo citare la straordinaria efficacia espressiva dell’opera di Francisco Goya, la potenza lancinante dei quadri di Munch, la complessità psicologica dei soggetti di Kirchner, o, ancora, la spigolosità dei tratti e l’ossessività del tema erotico nei numerosi lavori di Egon Schiele.

Anzi, si conceda pure di estendere queste considerazioni a tutte le forme d’arte, non soltanto quelle visive: oltre alla pittura, infatti, anche la letteratura è spesso veicolo di considerazioni notevoli sulla psiche umana, così come lo sono anche la musica, la danza, il teatro e la moda. Quest’ultima, nello specifico, ricopre un ruolo di importanza fondamentale nell’espressione artistica del proprio mondo interiore, in quanto è in grado di investire tutti gli ambiti di produzione, dai più semplici manufatti artigianali alle più artificiose e complesse costruzioni di tipo industriale. Una cosa, però, che nel linguaggio comune è diventata abituale, è associare al concetto di “moda” quel sottoinsieme di prodotti legati alla sfera dell’abbigliamento: da questo punto di vista, la moda si può facilmente considerare la rappresentazione perfetta dei contrasti interiori di un individuo, in quanto, oltre a costituire parte importante dell’aspetto esteriore di una persona, ne può riflettere, in maniera più o meno evidente, la condizione psicologica corrente. Con questo, non si deve pensare che il capo d’abbigliamento porti sempre con sé una connotazione psicologica intrinseca e universale: in alcune situazioni, infatti, conviene attribuire questa caratteristica ad altri fattori più significativi, quali l’occasione e il pubblico interessato. Ad ogni modo, risulta evidente che il conflitto (soprattutto interiore, ma non solo) rappresenta nel mondo della moda un tema di grande rilievo, tanto da essere realizzato secondo prospettive spesso molto diverse fra loro.

Un primo fenomeno riguarda una tendenza piuttosto recente, che esprime il contrasto psicologico in maniera abbastanza diretta: si tratta delle cosiddette clashing patterns, rappresentazione concreta del conflitto psicologico umano nel mondo della moda. Ciò che colpisce di questo trend, a dire il vero, è la reazione immediata che ne deriva: la presenza di fantasie contrastanti, invece di indurre nell’osservatore un senso di fastidio e di avversione, provoca spesso l’effetto opposto, tanto che talvolta si attribuisce l’origine della piacevolezza estetica di un ensemble proprio a questo “conflitto di stampe”. Si potrebbe dunque dire che l’attrazione verso questo tipo di fenomeno dipende dalla comunanza dell’elemento conflittuale, presente tanto nel nostro mondo interiore quanto nel contrasto visivo tra indumenti con motivi diversi.

Il secondo fenomeno, invece, è legato, più che al conflitto nella moda, alla moda del conflitto. A dire il vero, bisognerebbe delineare una distinzione tra due “sottotipi”, che riguardano l’uno i conflitti di tipo militare, l’altro quelli senza armi: ci si limiterà, nella brevità di questo articolo, ad analizzare quest’ultimo. Nel caso di proteste e manifestazioni, infatti, così come in occasione di eventi di grande risonanza a livello mediatico, la moda può diventare uno strumento utile per veicolare messaggi importanti, soprattutto se in contrasto con l’autorità vigente: è il caso, ad esempio, del ricorso al colore nero e ad altri importanti simboli di protesta, come la mano sinistra serrata in un pugno stretto, da parte del movimento Black Lives Matter, delle sfilate organizzate per mostrare il supporto da parte dell’industria della moda nei confronti della crisi in Ucraina, oppure dell’uso, da parte di singoli individui, di quelli che vengono spesso definiti statement pieces, ossia di capi d’abbigliamento che trasmettono un forte messaggio di carattere politico. È il caso, ad esempio, di Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata democratica di New York presentatasi al Met Gala del 2021 con un lungo abito bianco dominato da una grande scritta rosso sangue: «Tax the rich».

Si potrebbe infine affermare che la moda esprime anche un altro genere di conflitto: quello tra uniformità e differenziazione. Il che vuol dire che a ogni tentativo di distinguersi, tramite il proprio abbigliamento, da una massa ritenuta monotona e conformata, si rischia di incorrere in un’altra involontaria conformazione, che dà avvio a un circolo vizioso da cui non sembra esserci via di scampo. 

Quant’è vero, dunque, che spesso è difficile risolvere un conflitto interiore attraverso l’arte, lo è altrettanto il fatto che, come risposta all’incapacità di fuggire da questa gabbia invisibile che ci separa dal resto del mondo, si potrebbe semplicemente provare a non combatterla, e imparare a indossare, con orgoglio, la propria prigione.

di Alessandro ed Eleonora Comparato

Wheatfield with crows, Vincent van Gogh

Untitled Forms, See-ming Lee

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