«Crisi, di che natura? D’ordine economico? Oppure è come è dunque organizzato questo teatro moderno, se per vivere non gli basta un così largo concorso di pubblico, ma ha bisogno di esaurire letteralmente i biglietti tutte le sere? Oggi gli autori scrivono per i piccoli gruppi intellettuali, per una certa critica, per porre la candidatura alle varie Accademie, non scrivono più per la folla. Sdegnano di fare quello che non hanno sdegnato Eschilo, Shakespeare, Calderon, Molière. E allora la folla che essi affettano di ignorare li abbandona».
Così scriveva Silvio D’Amico già nel 1928.
Se paragonato al cinema, che ha livelli di incassi al botteghino e presenze di pubblico buoni e, in molti casi, in crescita, il teatro fa molto parlare delle sue difficoltà di sopravvivenza, come è il caso anche della danza e della musica. Eppure il teatro, nel suo senso più tradizionale, dove l’elemento umano è protagonista, è nato per permettere agli artisti e ai cittadini di entrare in relazione tra loro al fine di creare una comunità civile. A partire dal suo carattere originario, espresso per esempio nella tragedia greca, il teatro si è anche trasformato, per cercare di stare al passo con i tempi. In questi anni esso è però comunque in crisi, la gente non ci va più, i giovani non ci vanno più. Ma a cosa è dovuta questa crisi? A questo tentativo di stare al passo coi tempi? O ha ragione D’Amico?
Come suggerisce il motto della secessione viennese: «A ogni epoca la sua arte, all’arte la sua libertà». E quindi anche il teatro, come ogni altra forma artistica, ha varcato la soglia del digitale. Già negli anni ’70 e ’80, gli attori in scena interagivano con le nuove tecnologie elettroniche, telecamere e monitor. Poi è arrivato il teatro multimediale, che propone una forma più “immersiva” di spettacolo usando il digitale all’interno delle performance.
“Virtual (Reality) Theatre, Digital Puppet Theatre, Augmented Reality Theatre, Artificial Theatre, Enhanced Theatre, Expanded Performance, Cyborg Performance, Cyber Performance, Mobile Performance, Digital Performance, Computer Theatre, Mixed Reality Stage, Real Time Performance, Instant Digital Theatre, Live Online Performance, Net Drama, E-Theatre, Internet Theatre, Net Theatre, Chat Performance, Id Theatre, Webcam teatro, Hacker teatro, Web Streaming Performance, Web-based Drama, Digital Story Telling, Telematic Performance, Performance in Remote Connection, Networked Theatre, (Computer) Mediated Theatre, Intermediated Performance, Hyperdrama, Interactive Generative Stage, Multimedia Interactive Performance, Intelligent Stage, Activation Space, Multidisciplinary Media Performance, Trans-media Performance, Electronic Theatre, Live Cinema, Interfaced Theatre, …”
Queste sono solo parte delle nuove definizioni che Anna Maria Monteverdi, ricercatrice e insegnante nel campo dello spettacolo, ha attribuito al teatro nel suo libro Nuovi media, nuovo teatro: è subito evidente la varietà di proposte con cui il multimedia digitale è arrivato in scena. Nel suo libro, la Monteverdi affronta il problema della mutazione del teatro in concomitanza con l’evoluzione del digitale, mettendo in dubbio anche la definizione stessa di “drammaturgia”, che diventa “iperdramma” mentre i nuovi tecno-interpreti diventano “mediattori”, “cybernarratori”, “synthetic actors”, “digital storytellers”. Ma ciò che interessa davvero l’autrice è verificare, prendendo spunto da Lev Manovich, se i nuovi media stiano realmente cambiando il teatro. Questo quesito assume una rilevanza fondamentale: la preponderanza del multimedia spinge a parlare di “teatro digitale”, ma ciò potrebbe apparire come uno snaturamento degli aspetti basilari dell’arte teatrale. In altre parole, è il teatro che si meccanizza o la macchina che si teatralizza?
In un’intervista esclusiva per il Digital Humanities Project, la professoressa Susanne Franco, docente di Storia della Danza e di Storia del Teatro presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha affermato che si tratta di una meccanizzazione del teatro, funzionante grazie a una serie di dispostivi che semplicemente aumentano la capacità di un attore di narrare da solo, al punto che, molto spesso, non si parla neanche di “nuovi media” o “nuove tecnologie teatrali”. Ne è un esempio lo spettacolo 887 di Robert Lepage, in cui, per quanto sfruttata, la tecnologia si limita soltanto a potenziare il dispositivo teatrale, senza modificarlo radicalmente. “887” è il numero civico della casa in Québec del protagonista e autore, casa che viene rievocata da una scenografia mobile in grado di richiamare figure umane. Benché Lepage usi la tecnologia per creare un magnifico cortocircuito di memoria individuale e collettiva, è anche evidente che, in questo caso, i supporti multimediali non fanno altro che aggiungere potenziale al dispositivo teatrale.
Anzi, ci sono esperimenti in cui la tecnologia viene usata puramente come maquillage per modernizzare lo spettacolo: vengono sfoggiate grandi capacità tecnologiche, meravigliose scenografie, ma senza che nulla venga aggiunto all’esperienza teatrale, appunto una pura cosmesi, tanto che si può dare per assodato che la scena teatrale digitale monitorizzata assomigli sempre più a un set televisivo o cinematografico. Lo stesso Lepage, alla fine degli anni Ottanta, propose Le Polygraphe, uno “spettacolo cinematografico”, con simulazioni di riprese e applicazioni tencnologiche. È invece quando sono concepite come un elemento profondamente legato al testo (sia quello scritto, sia quello scenico, ovvero quello che si crea in scena grazie alla recitazione e a tutte le componenti di uno spettacolo) che queste potenzialità teconologiche possono arricchire considerevolmente l’esperienza dello spettatore.
Il binomio arte-digitale è in ogni caso sempre più stringente e impone non solo riflessioni sul tema, ma soprattutto spiegazioni dirette di chi si occupa delle numerose sfaccettature di questa relazione. Secondo la professoressa Franco, molto spesso non si tratta della quantità di tecnologia usata, ma della sua utilità. Il ruolo della tecnologia, infatti, deve essere quello di arricchire l’esperienza teatrale, e distinzioni gerarchiche tra il teatro “puro” e quello digitale sono errate, in quanto il secondo non costituisce una degenerazione del primo. La docente tiene comunque a sottolineare che una delle condizioni per mantenere vivo il teatro è il pubblico, che ultimamente scarseggia.
Come fare per attirarlo? “Non è questione di attirare, ma di parlare. Ogni forma di teatro è l’esito del contesto culturale di cui è espressione, ma allo stesso tempo contribuisce alla trasformazione di quest’ultimo. Il teatro oggi non può evitare di essere in qualche modo legato alla tecnologia”, continua la docente, “basti pensare all’illuminotecnica, agli effetti sonori gestiti dai computer; ci sono mille livelli a cui noi siamo ormai abituati anche a teatro, senza pensare che sono già mediati dalla tecnologia”. Riprende poi l’esempio dello spettacolo 887, dove l’artista, “attivando” determinate stanze, video, ambienti racconta storie. “Quest’uso è in linea con il modo in cui noi ci relazioniamo con il touch screen per entrare in un database: noi attiviamo delle porte, degli accessi a un mondo da cui poi usciamo e in cui rientriamo, ma da un’altra parte”. È naturale però chiedersi perché, nonostante il rapporto nuovo che intercorre tra arte e tecnologia, i giovani, ormai attratti dalla digitalizzazione, non vadano a teatro. La professoressa esclama dicendo che “sui giovani a teatro si potrebbero fare dodici interviste”!
La docente stessa si riposiziona in prima persona nell’arte di volta in volta, perché tutti i linguaggi si trasformano, ma allo stesso tempo manca cultura teatrale. Da una parte, si dovrebbe essere pronti a mettere in discussione il proprio pensiero, con apertura e umiltà, proprio per questa continua trasformazione; dall’altra, l’assenza di cultura teatrale è dovuta proprio alla mancanza di formazione scolastica, in particolare in termini di strumenti culturali e di stimoli alla curiosità. Se ai bambini, infatti, si danno strumenti che rispondano anche alle loro curiosità, questi entrano in un mondo magnifico dove hanno spazio per esprimersi. Il vero problema, però, è quando poi i ragazzi diventano più grandi, perché si verifica un vero e proprio scollamento culturale dovuto al fatto che nessuno li accompagna nello studio del teatro.
Ma forse non si tratta di una crisi istituzionale, quanto esistenziale. Gli antichi Greci, quando hanno perso il loro teatro, hanno perso la loro democrazia. Il coro del teatro greco era portavoce della collettività della polis e dei suoi valori, rappresentava l’interrelazione tra individuo e comunità: la base della democrazia ateniese. È questo ciò che rende il teatro ateniese, come disse il grecista Dario Del Corno, “un’occasione esemplare di esperienza di vita collettiva” e anche singola, in cui l’individuo può confrontarsi con le emozioni in scena. Oggi questo valore è stato soffocato dal bisogno di ottenere il gradimento degli sponsor o un plauso dalla critica. Nella vita quotidiana, già sedentaria, sembra essersi perso il legame con la collettività, tanto che spesso si fatica anche a scambiare due parole con una persona. Il paradosso è che si è consapevoli di questo disagio e si dovrebbe quindi essere portati a riconoscere la funzione aggregativa, politica e sociale del teatro, ma nonostante ciò le platee rimangono vuote.
In The Fuzzy and the Techie (2017), Scott Hartley smentisce la “falsa dicotomia tra le discipline umanistiche e la scienza digitale”. Il mondo digitale è destinato a diventare uno dei principali canali di trasmissione ma anche di creazione di contenuti culturali e creativi. In altre parole, internet, le piattaforme e la digitalizzazione possono avere un effetto positivo sulla creatività, tanto che alcuni artisti già si sentono ancora più liberi di esprimere la loro visione del mondo attraverso lo strumento digitale. L’integrazione della cultura digitale può diventare quindi non solo supporto di quella classica, ma uno strumento di conoscenza. Le persone e i loro fabbisogni devono tornare al centro dell’attenzione e la tecnologia, sebbene non debba diventare il fine ultimo di questo processo, può divenire uno strumento per incoraggiare la partecipazione. Molti teatri in Italia stanno provando a combattere questa duplice crisi sfruttando proprio le armi della tecnologia: marketing digitale, tour virtuali dei teatri, registrazione e pubblicazione degli spettacoli teatrali.
Il teatro è dunque in crisi? Se ci atteniamo a ciò che disse D’Amico, sì, c’è da tempo una rottura tra il fare e il concepire il teatro. Ma si tratta anche di una crisi generazionale, d’identità, di opportunità.
Il rinnovamento del teatro può avvenire con o senza digitale, ma solo da parte di gente scontenta della situazione attuale e pronta ad assumersene le responsabilità, “pochi matti che non abbiano niente da perdere e che non temano di lavorare sodo”, come diceva il regista Jerzy Grotowksi.
È ora di rimboccarsi le maniche.
di Ludovica Stecher
Articolo interessante su cui però andrebbe aggiunto qualche altro elemento per spiegare la crisi attuale. In primis almeno per certi spettacoli è il costo degli stessi, costi non sempre accessibili a tutti e ancora meno a dei ragazzi. Ma non solo ciò. Anche la mancanza di tempo libero di vite alienate che finiscono per rifiutare qualsiasi cosa rappresenti un ulteriore carico come anche il dover prenotare, cercare parcheggio o semplicemente doversi immergere in storie che facciano pensare. No…Per molti è troppo…tornano a casa e vanno a letto perché l’indomani vivranno analoga triste giornata. Vi sono altre cause ma comunque credo che cambiando la società e questo attuale modello culturale si possa anche tornare ad avere voglia di leggere o andare a teatro!
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