IN PRIMA LINEA
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A Skagen, il Mare del Nord si scontra con il Mar Baltico. O si fonde. O si unisce. Si mischia. Confligge.
O magari si abbraccia.
È un microscopico luogo ventosissimo sulla costa danese, uno dei tanti scenari del secondo conflitto mondiale. Un’intera costa completamente deturpata di bunker. Dietro c’è un paesaggio lunare alla Menin Road, Råbjerg Mile. Un deserto nordeuropeo: chi ci vede il vuoto desolante e chi un posto da poter riempire di noi stessi, e non delle cose che riempiono i posti.
Oltre l’estrema punta nord di questo lembo di terra emersa, i due mari gelidi si sfaldano in onde trasparenti e in un momento non si riesce più a distinguere il confine tra le due acque, quale mare sia dove, chi sia chi.
Come nelle relazioni con le persone. Le relazioni sono sempre un conflitto.
Oppure un abbraccio, o molto più spesso entrambe le cose. In ogni caso, molto spesso non sappiamo dove mettere il confine con le persone con cui interagiamo, tra noi e loro, tra i nostri desideri-bisogni e i loro. Così confliggiamo quando non riusciamo a confonderci e perdiamo l’equilibrio e non sappiamo più che fare.
Eppure, mantenere il conflitto con gli altri significa anche riuscire a creare una distanza, porre un limite, delimitare chi siamo noi da chi sono gli altri, riconoscerci come non-altri e salvaguardare il nostro sé. Opponendoci all’altro siamo in grado di non perderci in esso e di non disgregare parti di noi; troviamo vie per non soccombere ai loro desideri, o al nostro desiderio di essere loro desiderio; costruiamo relazioni non simbiotiche ma di costante dialogo. È quando non ci interessa più l’altro o ciò che l’altro ha da offrire che il dialogo e il conflitto perdono senso e ci si rinchiude in un egoistico bastare a se stessi. In quanto non-altri affascinati e dipendenti dagli altri, possiamo conoscere l’io e dargli sostanza: il conflitto come atto conoscitivo.
E dal conflitto con l’esterno, si arriva al conflitto con l’interno: il dissidio interiore, la ricerca senza posa della forma nuova in cui abitare. L’inganno della crescita e del mondo dei “grandi” che anziché riservare le certezze promesse e attese, nutre solo dubbi crescenti, prese di posizione meno nette, zone più grigie. E anche in questo caso confliggere è un atto conoscitivo: è il conflitto delle scelte da compiere, sempre continuamente, a rivelare chi siamo, a definirci. Ogni dubbio in realtà è una risposta alla ricerca del sé. Anche se a volte qualche sé si lacera dolorosamente per sempre, e non è più in grado di riabbracciarsi e riconoscersi.
Umberto Boccioni dipinse nel 1911 gli Stati d’animo: si tratta in realtà di due trittici realizzati con due tecniche stilistiche differenti che rappresentano gli stessi tre soggetti, cioè i concetti astratti che perturbano chi va, chi resta, e chi saluta in un addio. Il quadro a cui sono più affezionata è quello degli Addii, la versione conservata al Museo del Novecento di Milano. Si strazia l’animo nel ribollire confuso di linee che si sovrappongono a linee, dai colori violenti e caldi; dalle retine l’immagine si trapassa nella memoria muscolare, e vedendo intendiamo perfettamente (come se lo stessimo di nuovo vivendo nel nostro cuore) cosa significa voler abbracciare così forte da confondersi, da non potersi staccare più, da essere ancora insieme – mentre tra pochi secondi non lo si sarà più.
Eppure, a guardarli bene i trittici potrebbero anche rappresentare chi torna, chi aspetta e chi accoglie. Anziché un addio, gli Addii potrebbero anche essere un venirsi (in)contro, un con-fondersi per tornare a essere uno, da due che si era.
Così mi chiedo: dopo esserci salutati e scissi da noi stessi per girovagare alla ricerca del senso, alla ricerca del sé, in modo più o meno consapevole, doloroso, volontario; che cosa succede quando cessa il tormento, quando cessiamo di essere in guerra con noi stessi, e torniamo?
Chi siamo, quando gran parte della nostra identità era proprio quel conflitto, quell’essere scissi in se stessi, quell’avere sempre fame e sete di una ricerca spasmodica (fine a se stessa?) del senso? Dal cercare il senso delle scelte da fare, le risposte all’interrogativo tragico “che fare?”, poi rimane sul fondo il chiedersi chi siamo dopo quelle scelte, dopo quelle svolte intraprese del sentiero, dopo quelle risposte che ci siamo dati, dopo quelle esperienze che abbiamo vissuto.
È come se una parte di quell’essere in conflitto, un’anima perennemente sospesa, abbia aspettato smarrita che l’altra parte tornasse, un’anima vagula e blandula che prima o poi sarebbe partita da dove era andata a finire nel suo cercarsi. E come è stato sconvolgente il separarsi, eppure così definitorio e identitario, poiché così l’”io” è sì qualificato in quanto io in conflitto, in difficoltà, in ricerca; così è devastante il riabbracciarsi, il confluire nuovamente l’una nell’altra come due mari gelidi e trasparenti: perché, nel risultato di mezze sfere che non coincidono più come prima, non si sa più chi sia chi. Cercandosi, pensando di essersi afferrati finalmente, ci si è persi. Non ci si riconosce. Non si sa come qualificarsi agli altri. Immagino si diventi la stratificazione di io diversi, somme di persone che siamo state in momenti diversi della nostra storia: una storia che non sappiamo bene raccontarci, perché ne abbiamo perso il filo nel continuo andare e tornare, scinderci e riunirci. Ora che siamo fermi in pace, che cosa abbiamo da dire? Ora che finalmente abbiamo trovato l’agognato equilibrio, ora che abbiamo temuto e anelato, litigato rinnegato e accettato: che fare?
Foto di Caterina Moro