“… erano i miei primi passi dell’impostura. Mi è venuta in mente l’idea di riprendere delle pagine dai diari e inserirle in questo libro […] ma a parte l’intenzione estetica non riuscivo a stabilirne il senso. Tanto valeva inventarle ho pensato. Comunque erano già state inventate.”
Che differenza c’è tra la vita che viviamo e quella che ci raccontiamo? Quale delle due è più autentica nel momento in cui la vita diventa passato e quindi ricordo?
In Niente di vero, Veronica Raimo fa esattamente questo. Racconta se stessa, la sua famiglia, la sua infanzia, le amicizie gli amori i vagabondaggi. Si direbbe una biografia, il romanzo della sua vita. Eppure per tutta la lettura c’è il fastidioso pensiero che in realtà sia tutto bugia e finzione, che l’autrice abbia scritto tutte queste pagine di ironico realismo solo per nascondersi ancora più fittamente. Come se ci fosse una barriera tra l’autore e il lettore, l’impossibilità di stringere davvero il patto narrativo: i fatti sono verosimili e credibili, ma il dubbio che essi non siano la verità ostacola il completo abbandono alla lettura, fa aleggiare un non troppo sottile senso di fastidio. L’autrice gioca con la menzogna, ed è questo, il dubbio che lei ci stia mentendo, che impedisce il patto; c’è il persistente risolino ironico che emerge dalle pagine e ci ricorda costantemente che è solo una storia, non c’è, appunto, niente di vero. Resta solo da chiedersi se non ci sia pure niente di Vero[nica]: eppure ogni scrittore in qualche modo racconta qualcosa che ha vissuto; quindi, in questo libro sicuramente c’è Veronica ma non la verità. C’è la sua vita, ma non è la sua storia.
“se mi chiedessi ora cosa so fare, sprofonderei nello stesso imbarazzo dei miei vent’anni, ma se c’è qualcosa che ho capito da allora è che temo la verità più della morte.”
Sono in effetti una di quei lettori che dovrebbero giudicare i libri dalle copertine: in Niente di vero, già il titolo mette in guardia su quello che poi è un disvelamento delle ultime pagine, una sorta di conferma, se vogliamo, di quel pensiero fastidioso che ha iniziato ad assillarci a tratti durante la lettura e che appunto è preannunciato dal titolo. In copertina, una bambina: è soprattutto dell’infanzia della protagonista che si parla infatti nel romanzo – come se il nostro passato sia più distinto e raccontabile nell’età che più scompare e si rarefà al passare del tempo. Pochi aneddoti, in confronto, sono legati all’età adulta dell’autrice. La bambina nella foto stringe forte gli occhi e storce la bocca: come a non vedere, non voler sentire tutte le bugie che seguiranno una volta iniziato a sfogliare le pagine. Un po’ si legge in quel non-sguardo il disturbo di una vita mai compiuta, mai certa, sempre instabile, uno strazio che logora da sempre la protagonista, un mai sapere quale sia il suo posto (“A Berlino non ho un posto mio […] Amo vivere nelle case degli altri […] Quel senso di straniamento mi fa sentire me stessa”), il copione che deve recitare.
“Ed è così che mi sento in ogni istante della mia vita: ma sì, dai, facciamo che sono io.”
È una tematica ricorrente in certi discorsi che facciamo a noi stessi, è il leit motif di certi abissi che anziché essere insondabili, vorremmo continuamente esplorare, scavare, purificare, sanare: per stare finalmente bene, per trovare un senso (il senso) del vagare a cui siamo costretti. È il dramma della nostra generazione, dei giovani adulti di oggi, stretti tra i nostri genitori con la loro presenza-assenza e una manciata di strade che potremmo imboccare e che invece ci fanno solo perdere. Ci si può riconoscere in tante pagine: in fondo quindi, forse non c’è nulla di Vero, ma tanti pezzetti di verità universale che coinvolgono tutti i potenziali lettori. Che poi non è questo uno degli scopi della letteratura e dell’arte, trovarci qualcosa in cui riconoscerci? Poi certo, ognuno trova quello di cui ha bisogno in quel momento…
C’è una cosa però che non mi ha convinta in questo romanzo. Ammetto che la critica, se così la vogliamo chiamare, rasenta la pretesa estetica, quindi immagino sia gusto personale. C’è una sorta di bruttezza che pervade il romanzo. Come se l’autrice avesse davvero “un profondo culto per la sciatteria, dovesse abbassare i toni”, facendo perdere la solennità insita in ogni raccontare. Il problema non è parlare dello squallore, della sciatteria del reale in sé: si tratta più di un’impressione, di una sensazione che si appoggia come una patina su tutto il romanzo e impedisce ogni senso di assoluto, ogni volo. Pur trovando intrigante la riflessione verità-menzogna, pur ritrovandomi in aspetti della storia narrata, il sapore che mi lascia questo libro è sedie di plastica vecchia, sporca, abbandonate in giardino. È solo una sensazione, per questo non so come altro descriverla se non con quest’immagine.
Perché potrebbe vincere? Onestamente, perché è vero che fa ridere, come dice Zerocalcare sulla quarta di copertina. La scrittura è ironica e graffiante, quasi a rasentare talvolta il sarcasmo. Viene da ridere perché “siamo arrivati al paradosso” tante volte durante la lettura, perché a volte ci riconosciamo nelle cose assurde che succedono. È una risata breve, involontaria, un po’ liberatoria. Non è un libro divertente, anzi a volersi soffermare sul contenuto e basta, non c’è proprio nulla da ridere. Ma l’autrice ha un modo leggero di volare sopra le bruttezze che descrive: è in grado di non prendersi troppo sul serio, per questo è ironica. Se vogliamo imparare qualcosa da questa lettura, credo che sia il fare ironia su se stessi. Se vogliamo invece solo arrovellarci su dilemmi senza soluzioni, forse è il caso di restare a chiedersi quanto questa ironia riveli e nasconda di Veronica (di noi), quanto lasci trasparire che quanto detto non è “niente di vero”.