Premio Strega 2022: Nova di Fabio Bacà

Nova, edito da Adelphi, si premette di esplorare la violenza come possibilità e come realtà nella vita borghese, placida, insipida e condita con la preoccupazione del veganesimo, degli hobby giusti, della musica classica a uso e consumo.

Fabio Bacà si spinge verso quella frattura, insanata e nascosta, tra il quieto vivere e le pulsioni, sotterranee e indicibili, che stregano le nostre menti e i nostri corpi. Nella vita di un primario toscano (lucchese e che l’autore marchigiano fa parlare, disgraziatamente, in fiorentino), ricco e fortunato – eppure mesto, umile, mite. Una sorta di Pastorale Lucchese con tanto di moglie veganissima, figliolino sfigato alle prese con l’amore e l’erba, vicino tra il goffo e il minaccioso – caratterizzati in modo piacevole e convincente.

Nella prima metà del libro un ritmo eccellente, l’incastro tra i personaggi e l’interrogativo sulla violenza tengono davvero attaccati alla pagina. La prosa di Bacà è misurata, precisa, anche nella tenerezza riservata ai gatti di casa o al figlio, che in una crisi mistica tanto scorata quanto inverosimile disconosce Drake. Il contrasto tra il controllo siderale della forma e la visceralità della sostanza porta, però, all’inciampo del libro – che verso la metà perde di slancio e non riesce ad esplorare l’abisso cui ci avvicina. Una materia vivissima, cupa, tremenda che si incarna con difficoltà sulla pagina. La scelta di raccontare la storia seguendo in momenti diversi personaggi, di per sé eseguita con successo, ostacola la concentrazione di pathos e l’accumulo della tensione necessaria. La scommessa di Bacà, al contrario, sembra quella di spedire la violenza in un suggestivo iperuranio. L’equilibrio tra pensiero e svolgimento si sfalda e l’autore si abbandona con troppa rilassatezza all’astrazione, alla riflessione. Ci sono pagine propriamente saggistiche, ma che mancano del rigore e della precisione propria del genere. I dialoghi sullo zen sfiorano, a un tratto, la misura del monologo motivazionale – un po’ troppo.

A soffrirne è la storia, che si incaglia su alcune “pose” poco convincenti. La volontà di rimettere al centro la violenza come parte connaturata dell’umano è esplorata in modo ora convincente, ora meno. Soprattutto perché Bacà, dopo averci condotto davanti a questi impulsi distruttivi, anti-umani, anti-sociali, non ce ne lascia assaporare la dolceamara ebbrezza. Mostra che il bene, in alcuni casi, è accessibile solo al costo della follia, dell’attacco, ma senza farcene contemplare forma, colore, sostanza. L’odio si risolve in un paio di occhi chiusi stoicamente nella riflessione, quasi che – alla fine – il lungo itinerario necessario per prendere confidenza con la violenza finisca in vano.

È possibile che Bacà avesse in mente un romanzo-saggio in cui esplorare un’ontologia dell’odio, opposta all’ordine neutro e ordinato del nostro pensare, e spiegare come a reggere il mondo sia più la violenza che la regola. La misura di questa pretesa non è stata raggiunta, vuoi a causa del narratore esterno, dello spazio concesso alle vicende individuali, alla resa un po’ plasticosa della filosofia orientale. La pretesa ontologica avrebbe necessitato di un’epica, ma Bacà non fa molto di più che lasciare un interessante suggerimento, forse inconsapevole che a lui rimanga l’onere della prova.

di Giovanni Cerboni

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