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The expat guide to «making kin»
Ho bisogno di dare materia all’amore. Il dialetto della mia città insegna che l’amore non esiste. Quando due persone si amano, al massimo si dice che si vogliono bbun, ossia bene. Eppure la parola amore compare nel vecchio dizionario del sacerdote dialettologo Giuseppe Grassi, vale come sinonimo di sapore. Se un frutto non ha amore vuol dire che è insipido, acerbo.
Titolo clickbait? Colpevole, ma in amore e in tempo di Strega (ovvero: guerra tra blog letterari) tutto è concesso.
Veniamo al dunque iniziando con i dati tecnici: ci occupiamo oggi di Spatriati, di Mario Desiati, pubblicato da Einaudi all’interno della collana Supercoralli.
Con meno di trecento pagine e una trama piuttosto lineare (due millennial della provincia pugliese vivono da expat a Berlino) il romanzo appare innocuo: contiene invece una commistione di temi complessi che rendono la lettura interessante (e la recensione difficile).
Per non sbagliare, ci sottraiamo in toto alla prova del riassunto e del commento globale, limitandoci per le premesse ad una considerazione sintetica: l’immaginario collettivo di riferimento sotteso al racconto è più difficile da cogliere se non si è nati negli anni Ottanta o non si è vissuta un’adolescenza di provincia. Da zoomer (ognuno ha i suoi difetti) non ho potuto richiamare l’esperienza della felicità come «l’attimo di ronzio che precede la musica di un 33 giri», e anche se ho abitato anch’io a Berlino non l’ho vissuta come la liberazione di cui si racconta nel romanzo. Tuttavia, ho potuto comunque apprezzare il valore di questo racconto sotto altri aspetti.
Il primo è il dizionario poliglotta delle passioni tristi in dialetto pugliese e poi in tedesco, che precede ogni capitolo: ritrovare alcuni dei capolavori della sintesi linguistica tedesca (Ruinenlust, Torschlusspanik) è un momento proustiano per tutti quelli che hanno studiato questa lingua lasciandosi affascinare tra i banchi di scuola da concetti come Wanderlust.
Ma poi, soprattutto, Spatriati è il manifesto di una generazione per la quale vale il motto di Donna Haraway «make kin, not babies». Anche kin è un termine di difficile traduzione: designa i legami familiari, ma non necessariamente di sangue; le famiglie che si scelgono. Un merito di questo romanzo è proprio quello di dimostrare, non in modo retorico, ma con la naturalezza del racconto, cosa significa scegliersi, volersi bene, al di là delle convenzioni e delle forme di convivenza familiare che conosciamo per tradizione. Seguire la vita di Claudia e Francesco, legati indissolubilmente attraverso le stagioni della vita e le città dell’Europa senza frontiere, dà conforto a chi oggi si affaccia spaurito all’età adulta con la consapevolezza che le possibili configurazioni dell’esistenza sono infinite nello spazio e nelle modalità.
Perché potrebbe vincere?
Perché dimostra che le radici degli spatriati, che siamo tutti noi figli di un mondo dagli orizzonti sempre più lontani, stanno nelle persone, non nella terra (a cui c’è sempre tempo per ritornare, come il protagonista alla fine del romanzo): attraversano il vasto spazio del mondo globalizzato e il tempo veloce della vita iperconnessa per riportare alla quiete antica di casa.