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Il Maestro Sorrentino è tornato, e la sua nuova coreografia risulta vincente. Forse meno barocca di altre già condotte dal regista, ma indubbiamente più autentica.
Ad imporsi come prima immagine, l’acqua del Golfo di Napoli che fa da sfondo all’intera vicenda insieme alla capitale Partenopea.
È stata la mano di Dio, vincitore del Leone d’Argento alla 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, in sala dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre 2021, ripercorre la parabola personale del giovane Sorrentino – tramite il suo alter ego Fabio “Fabietto” Schisa – nel periodo precedente la morte dei suoi genitori – in un tragico evento – e nel corso del successivo dolore e agnizione.
Questo film altro non è se non la ricerca e l’analisi del vuoto interiore del regista. Vuoto causato dalla perdita inattesa, e che non viene mai riempito, ma indagato profondamente e che inevitabilmente modificherà la parabola di vita del protagonista.
Rispetto alla perdita dei genitori, il film è composto da due segmenti narrativi. Il primo segmento è inaugurato dall’arrivo di San Gennaro in una Rolls Royce. Il santo invita in macchina la musa e ispirazione erotica di Fabietto, la zia Patrizia, per farle vedere la chiesa dedicata al culto del santo e farle conoscere il “Munaciell”, spiritello dispettoso della tradizione popolare partenopea. Sorrentino dipinge magistralmente la Napoli del folklore, che sottacerà tutto il film. Elementi folkloristici, questi, che dipingono un quadro della città in considerazione delle varie sfaccettature dalle quali è composta.
Nella prima sezione Fabietto ancora può permettersi di idealizzare la propria vita da adolescente. La sua è una vita corale, vissuta nelle case della borghesia napoletana talvolta kitsch, talvolta moderna, talvolta estremamente grottesca. Tuttavia, è vissuta nell’affetto di questa famiglia multiforme e a tratti schizofrenica. Le scene sono idilliche e caratterizzate da una forte componente conviviale, come quella del pranzo domenicale e della gita in barca durante la quale Fabietto viene visivamente in contatto con le nudità della zia – poi ripresa in un primo piano stagliata come una dea sul mare napoletano e inondata da un fascio di luce – e vede per la prima volta i contrabbandieri, personaggi fondamentali della seconda sezione.
Fabietto sogna la venuta al Napoli di Maradona e nel frattempo si crogiola nella bellezza di quell’affetto famigliare che sembra quasi tinteggiato ad olio.

Continui sono i richiami a Fellini, richiami talmente insistenti che, nel film, il regista riminese si presenta di fatto per dei provini. Il cammeo del celebre regista però si limita alle sole mani e alla sua voce, la quale sentiamo dire una sentenza dura come un sasso: “La realtà è deludente”, una frase che influenzerà sensibilmente Fabietto.
Si ha infatti un sentore di un cambiamento proprio quando le realtà familiari iniziano a sgretolarsi e a risultare per quel che sono: semplici idealizzazioni di un ragazzino sedicenne.
Culmine di questa caduta degli dèi è, per Fabietto, la morte dei genitori, avvenuta nella casa di famiglia a Roccaraso durante un ritiro di fine settimana al quale avrebbe dovuto partecipare lo stesso ragazzo, impegnato, tuttavia, a vedere la partita Empoli-Napoli allo stadio. Come farà ben notare uno zio al funerale, “è stata la mano di dio – Maradona – a salvarti!”
La seconda sezione del film è la sezione dedicata vuoto. Il dolore che rappresenta è causato dal fatto che “non me li hanno fatti vedere, non me li hanno fatti vedere”. Nella sua ricerca di un perché, Fabietto trova qualcuno che possa aiutarlo: il suo mentore e regista Antonio Capuano. Questo incontro comporterà l’agnizione e l’iniziazione artistica del giovane permettendogli di confrontarsi con il proprio lutto, con i luoghi della città che lo fanno soffrire e con le proprie aspirazioni future, prima fra tutte quella di diventare un regista.
Nell’enigma delle immagini che parlano metacinematograficamente di se stesse, in particolare le scene girate in Galleria Umberto I, Capuano, mentre sullo sfondo campeggia un Golfo azzurro ai limiti dell’illusione e dell’Idillio, aggiunge: “Non disunirti”. L’elaborazione del dolore si fonde quindi con l’elaborazione artistica di una città amata, in un groviglio inestricabile che è ormai parte fondamentale del ragazzo e del futuro regista.
Anche se Capuano afferma che solo “i strunz se ne vanno a Roma per fare il cinema” Fabio, a Roma, effettivamente ci va.
Il film si chiude con un primo piano sul viso del protagonista che permette di vedere anche il paesaggio campestre che scorre attraverso il finestrino. Il fortissimo attaccamento alla città nella quale – inevitabilmente, come anticipa Capuano – dovrà tornare e la cui bellezza si fonde con la sofferenza individuale segna quindi il percorso artistico e personale di Fabietto, che Sorrentino accompagna con le note di “Napule è”, città idealizzata e nostalgica le cui acque e vie compongono lo specchio usato dal regista per sondare la propria anima.

Napule è nu sole amaro
Napule è ardore e’ mare
di Alessandro Augelli