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Chi abita i caffè? A metà tra mito e leggenda, nella memoria collettiva i caffè sono stati centro di ritrovo per politici e polo d’attrazione per intellettuali, ma anche luogo di aggregazione prediletto per la classe lavoratrice, sulla strada tra casa e lavoro (o viceversa). Ma possiamo considerarli un luogo pubblico nell’universo asburgico?
Seguendo il sociologo tedesco Jürgen Habermas, la sfera pubblica diviene reame di vita sociale in cui l’opinione pubblica, o qualcosa che la approssima, in base alla definizione che scegliamo della stessa, può essere formata. E’ spazio pubblico, di accessibilità trasversale, con tratti privati, come luogo della parola che si dispiega nella conversazione e nel dibattito tra pochi. Due domande sorgono spontanee: il “prezzo di una tazzina di caffè” è quindi abbastanza basso da non alzare nessuna barriera all’entrata? E gli avventori dei locali danno veramente vita a un processo di elaborazione e consolidazione dell’opinione pubblica?
Divieto d’accesso
Centrale per la narrativa delle Kaffeehaus viennesi, il principio dell’accessibilità non trova però riscontro nel quotidiano brulichio che le animava a fronte di un chiaro rispetto delle gerarchie sociali. Da un lato, la borghesia viennese non avrebbe trovato la stessa libertà di distrazione e svago se diversi strati sociali avessero composto la clientela dei locali. Dall’altro, l’umanità più varia popolava i caffè disseminati per la città: studenti tra Primo e Nono Distretto, musicisti e appassionati d’opera sul Ring nei pressi della Staatsoper. E venditori ambulanti: nei caffè si muoveva l’economia e si animava un mercato del lavoro autonomo, sulle linee delle teahouse asiatiche a Chengdu. Il rituale dello Stammtisch, il tavolo fisso occupato dai clienti abituali, ben esemplifica le funzioni sociali dei caffè, che riuniscono informalmente gli avventori intorno ad un grande tavolo per dar spazio alla discussione.
Covo di artisti e letterati
Oltre ai lavoratori, gli artisti si riunivano qui: i loro testi letterari ancora oggi plasmano la narrativa delle coffeehouse, dall’atmosfera intellettuale vibrante quale autentico centro di comunicazione. Le elite culturali metropolitane si ritrovavano per discutere gli ultimi trend in fatto di musica e teatro, o per sfidare i correnti dogmi artistici: è il caso del circolo della Jung Wien, nel rinomato Café Griensteidl, o del movimento Secessionista, nel tanto chiacchierato Café Sperl. I Literatencafés accolgono scrittori che trovano nei propri compagni stimoli e solidarietà, nutrendo il pessimismo radicato e decadente che, insieme a una nota di cinismo, informa la cosiddetta “fin-de-siecle culture”. La morte dei più grandi artisti del primo Novecento viennese e lo scoppio della guerra spengono la vivacità culturale dei caffè, preludio alla dissoluzione definitiva dell’impero asburgico. Ma le Kaffeehaus della capitale austriaca rimangono cristallizzate nell’atmosfera di quell’epoca, permeata di nostalgia per l’allora recente età dell’oro e disillusione per il futuro.
La stessa cultura Mitteleuropea pervade i caffè triestini, che replicano nell’arredamento e nella fruizione la frammentazione dell’identità nazionale percepita sotto l’egida degli Asburgo. Gli ultimi decenni dell’impero asburgico sono testimoni a Trieste di un dibattito intellettuale acceso e cosmopolita: la coffeehouse è microcosmo di questa realtà, offrendo ai letterati un rifugio dalla crisi del tempo e un’ancora contro la perdita del senso dell’Io con la dissoluzione di tutti i sistemi. Svevo, Saba, Joyce si uniscono alla clientela abituale dei caffè triestini, Caffè San Marco nello specifico, contribuendone alla costruzione del mito e trovandovi un “secondo salotto” dove ricevere lettere e ospiti. Poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, i 98 caffè sparsi per la città costituivano il principale luogo pubblico, centro di comunicazione e propagazione di nuove idee.

Arena politica
Al Café Sperl, di fianco agli artisti in cerca di stimoli e ai borghesi in cerca di quiete, si ritrovava un influente circolo militare, tra i cui avventori figuravano alle volte gli Arciduchi Giuseppe Ferdinando e Carlo Ferdinando. La convivenza si manteneva pacifica, e così rimase fino allo scoppio della Grande Guerra.
Lo stesso non si può dire di Trieste: la natura ibrida della città emerge lampante nell’intreccio tra celebrazione estetica dell’establishment imperiale e manifestazione di simpatie anti-asburgiche. I caffè sono covo prediletto degli Irredentisti, che ne fanno la propria sede ufficiale: si crea così il mito delle coffeehouse come sede di attività e attivismo politico.
Il Caffè San Marco, fondato nel 1914 dall’imprenditore triestino Marco Lovrinovic, compendia tutte le caratteristiche chiave delle coffeehouse triestine, dall’estetica asburgica alla cultura letteraria decadente alla forte identità Irredentista: qui la gioventù Irredentista stampava falsi passaporti per chi voleva evitare la leva obbligatoria. Con la firma della Triplice Intesa, simpatizzanti asburgici lo diedero alle fiamme.
I caffè accolgono la vita pubblica di una buona parte della popolazione locale ma rimarcano anche la diversa vocazione politica delle due capitali: al Café Sperl si ritrovano imperatori e tenenti militari, al Caffè San Marco la fazione irredentista. A questo dibattito politico si aggiunge una ricca produzione artistica, che ha i principali protagonisti in Klimt e Wagner per Vienna, Svevo e Saba per Trieste: fil rouge è un radicato pessimismo che è causato ed è causa della dissoluzione dell’Io, anticipatore della dissoluzione dell’impero asburgico e precursore di sviluppi modernisti nella cultura. Le coffeehouse rimangono comunque un ibrido: centro di socialità e discussione, approssimando un’habermasiana sfera pubblica con funzioni private, e luogo di non-commitment, dove passare il tempo da soli ma in pubblica vista.