Ode al turismo #2

Cronistoria fedele di un altro giorno a Venezia

tempo di lettura: 4 minuti

In fin dei conti, Venezia è una città autunnale. Mi è bastata la prima foschia di ottobre per capirlo.
Questa considerazione emerge tra i miei pensieri mentre imbocco una calle sconosciuta. Le pietre trasudano acqua e sembra che la città intera goccioli.
Guadagno l’imbarcadero; sono incredibilmente solo. Privilegio piuttosto raro, da queste parti. Sembra che la mania conoscitiva dei turisti abbia risparmiato questa piccola zattera ancorata sul Canal Grande. Mentre sguazzo dentro questo inutile beneficio, arriva l’Uno.
Di per sé, prendere il vaporetto che taglia a metà la città non è un’idea geniale. L’Uno non è famoso per favorire riflessioni solipsistiche. Il battello rigurgita un fiotto di persone e mi accoglie con indifferenza. Guadagno un posto senza troppe difficoltà, e mi guardo attorno. Davanti a me, quattro vecchi inglesi guardano Venezia con aria perplessa; forse si aspettavano qualcosa di più barocco. Dietro di me, due coraggiosi indiani hanno sfidato le tratte transcontinentali per portare tre figlioletti sotto i cinque anni in un posto che non potranno ricordare. Non ci faccio caso. Scene di transito quotidiano, a Venezia. C’è chi ci ha fatto l’abitudine, e non si sorprende nemmeno più di dividere la città con milioni di forestieri.
Guardo fuori dai finestrini, e mi imbatto in un cartello appeso a metà via su un palazzo storico. Su campo verde, qualcuno ha fatto scrivere:

VENEZIA È UNA VERA CITTÀ

Io lo osservo fino a quando mi è possibile. Più che una constatazione, pare un urlo disperato. Nel delirio quotidiano di una città in vendita, qualcuno cerca di mantenere la calma. Venezia è una vera città. Ma a chi è rivolto quel cartello? Ai turisti, che l’italiano manco lo capiscono? O ai veneziani, che magari non lo degnano della loro attenzione?
Superiamo il ponte dell’Accademia e quel cartello si è ormai stampato nella mia mente. Vera per chi? Per cosa? Mi guardo attorno. Certo, la città esiste, è lì, con le sue vecchie pietre e i palazzi di nobili e mercanti. Resta da stabilire, però, se Venezia sia viva. Questa triste considerazione mi fa mancare l’aria. Mi sento soffocare, dentro la pancia del vaporetto; alla ricerca di un po’ d’ossigeno, urto una manciata di passeggeri pronti ad essere vomitati alla prossima fermata. L’aria di ottobre mi schiaffeggia con indifferenza. Vedo molti volti tirati, stanchi. Chissà da dove arriva questa gente, coi bagagli grandi quanto una casa. Chissà quanta strada hanno fatto per sentirsi dire che Venezia è una vera città.
Ci siamo, è la mia fermata. I giardinetti di San Marco sono una trappola turistica perfettamente realizzata, e forse sono l’unico non-turista che ci transita, in quel momento. Curioso: mi sono definito al negativo, come si fa con le minoranze. Passeggio lungo il viale dove gli artisti espongono le loro operette per guadagnarsi da vivere; campano dipingendo Venezia a tinte brillanti, e forse non si chiedono se ciò che hanno sotto gli occhi sia vero oppure no.

In fin dei conti, a nessuno interessa se Venezia sia vera, viva, o qualcos’altro. Si va avanti lo stesso. Nel fuoco incrociato di selfie e foto panoramiche cerco di non perdere la calma; eppure, più mi avvicino alle colonne di fronte a San Marco, più il fuoco si intensifica. Dopo aver rovinato decine di immagini che finiranno dimenticate chissà dove, mi guardo attorno.
L’ultima volta che avevo scritto su Venezia, avevo parlato del suo carnevale. Del suo lato grottesco e bestiale, che ahimè ha poco a che fare con le maschere e il divertimento. Avevo parlato dell’ora e mezza che si impiegava per arrampicarsi sul Ponte di Rialto, e della fatica di una giornata passata a bestemmiare.
Adesso mi ritrovo a ragionare sulle stesse cose. Guardo le migliaia di facce attorno a me e non riesco a formulare pensieri molto edificanti. Forse il carnevale non è mai finito; forse le maschere sono ancora qui; forse la città sarà per sempre preda di questa parata senza senso. Milioni di figuranti si guadagnano i loro cinque minuti di bellezza; e noi, che la bellezza la respiriamo ogni giorno, siamo costretti ad assistere allo spettacolo. Un po’ come se, per amore della scenografia, ci sorbissimo tutti i drammi di un teatro.
Che si tratti di un privilegio o di una maledizione, io non lo so. Va a giornate. A volte, un tramonto infiammato è capace di spazzare via un mese di insolenze partorite lungo le calli infestate da turisti. Altre volte, Venezia mi pare così imbruttita da pensare che non ci sia più nulla da fare.
Venezia è vera? Non lo so. Certe volte, persino l’acqua mi sembra fatta di plastica. Ma, almeno, Venezia è viva? Finché ci siamo noi, forse.
“Linea venti!” chiamano dalla nostra banchina. Non è stata una buona giornata. Salgo, sono piuttosto pensoso. Un ruggito dopo l’altro, il motore ci porta lontani. Le facce dei turisti scompaiono oltre le onde e di Venezia rimangono i maestosi profili. La prima foschia di ottobre li avvolge come se cercasse di proteggerli.

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