Tutti, prima o poi, abbiamo sentito parlare di “narratori inaffidabili”. Narratori che, raccontando in prima persona fatti e avvenimenti, si rivelano essere fin troppo sinceri, terribilmente bugiardi, di memoria fallace o interessatamente selettiva. Narratori che, offrendoci la loro limitata prospettiva su una vicenda, possono permettersi di guidare la nostra interpretazione dei fatti dove ritengono più opportuno. Alcuni tra i narratori più peculiari in questo senso sono quelli di Kazuo Ishiguro (Nagasaki, 1954), che si rivelano uno strumento di riflessione sulla comunicazione, sul linguaggio e sulla valenza della narrativa.
In romanzi quali A Pale View of Hills (1982), The Remains of the Day (Quel che resta del giorno, 1989), il distopico Never Let Me Go (Non lasciarmi, 2005), le vicende ci vengono riportate rispettivamente dall’emigrata Etsuko, dal maggiordomo Stevens, dalla carer Kathy. Ciascuno di loro racconta al lettore la propria esperienza di vita sino a quel momento: Etsuko quella che, dalla Nagasaki della fine della Seconda Guerra Mondiale, l’ha portata in un paesino dell’Inghilterra, con i tragici risvolti di questo trasferimento per la figlia Keiko; Stevens quella di maggiordomo di Lord Darlington durante gli anni ’30, del suo rapporto con la governante Miss Kenton e del loro incontro vent’anni dopo; Kathy quella della sua infanzia nella strana scuola di Hailsham, dei suoi rapporti con gli altri studenti e del terribile futuro cui sono stati tutti destinati. Il fatto che tutte queste storie non seguano lo sviluppo cronologico dei fatti ma siano recuperate in analessi attraverso ricordi e associazioni mentali dei narratori ci mette in guardia fin da subito: la memoria è labile. Anche se i ricordi paiono cristallini, è facile confondere nomi, rimuovere particolari e, spesso, è più facile per la psiche serbare un ricordo doloroso, se rielaborato a nostro vantaggio. Kathy, per esempio, sottolinea con frequenza di non essere sicura di ricordare bene, o specifica come i suoi amici Tommy e Ruth ricordino certi episodi o conversazioni in modo diverso da lei.
La fallacia della memoria, tuttavia, è solo un primo, superficiale aggiramento di un problema ben più grave. Con il dipanarsi della vicenda, ci rendiamo conto di quanto, in realtà, i personaggi che raccontano non siano in grado di comunicare veramente nel loro contesto. Etsuko non ha un dialogo con la figlia, che, per volontà della madre, si è trovata a passare dalla realtà giapponese a quella inglese e a vivere con un patrigno straniero. Nel suo fin troppo rigido contegno da servitore, Stevens non solo non riesce a comunicare con Miss Kenton – la donna che ama – nemmeno per confortarla dopo la perdita della sua unica parente, ma è anche incapace di conversazioni più banali, come quando non riesce a illuminare il figlioccio di Lord Darlington sui misteri della prima notte di nozze. Kathy di solito preferisce andarsene o ricorrere a metodi subdoli piuttosto che litigare apertamente con Ruth e dover esprimere chiaramente la propria rabbia, e non è lei a confessare a Tommy l’amore che per lui prova da sempre.
Il primo ostacolo alla comunicazione dei narratori con il mondo esterno è sicuramente il fatto che questi non riescano a essere sinceri con se stessi o abbiano il timore di affrontare quello che provano davvero o le potenziali conseguenze che ne deriverebbero. Per esempio, quando suo padre muore durante un’importante cena a Darlington Hall, Stevens non riesce nemmeno a permettersi di vivere davvero il proprio dolore, e, anzi, è fiero di aver mantenuto la propria dignità di capo della servitù durante un evento tanto importante per il suo datore di lavoro. O, ancora, anche quando letteralmente messo all’angolo da Miss Kenton, non riesce a riconoscere a se stesso di esserne innamorato, e, sebbene percepisca il cambio di atmosfera che la presenza di lei può provocare, si rifiuta di indulgervi abbastanza da non poterla più rifuggire.
Un secondo ostacolo è dato dal fatto che anche gli altri personaggi non sono mai davvero sinceri e non veicolano mai fino in fondo le proprie emozioni, i propri pensieri, i propri sentimenti. In Never Let Me Go, per esempio, Tommy lascia che sia Ruth a decidere sia della relazione tra loro due sia, indirettamente, di quella tra lui e Kathy, e la stessa Ruth non è mai davvero diretta in termini di rancori e litigi, ed è uno dei personaggi che più di altri mente a se stessa: è l’unica del gruppo ad atteggiarsi per far credere di avere la preferenza – e quindi un surrogato di affetto materno – di Miss Geraldine e a crearsi delle fantasie precise e articolate in merito a chi sia la persona da cui è stata clonata.
Il fatto che nessuno dei personaggi sembri capace di sincerità o quantomeno di onestà comunicativa ci porta anche a riflettere su quanto la narrazione – la comunicazione tra il narratore e il lettore – sia affidabile e veritiera. In particolare, ciò che viene più esplicitamente messo in discussione è il ruolo del linguaggio, che diventa il veicolo di questa “truffa narrativa”: quello che dovrebbe essere il mezzo di comunicazione viene invece usato per camuffare, smussare, aggirare, tacere. La distanza di Etsuko, l’autocontrollo di Kathy, la prosa altisonante di Stevens – il fatto che personaggi così diversi in situazioni così diverse siano accomunati proprio da questo sottolinea come lo strumento che dovremmo usare per esprimere appieno la nostra identità e la nostra interiorità diventi la prima barriera che ogni singolo erige per difendersi e dal proprio sentire e dal mondo esterno, impedendosi di godere fino in fondo di relazioni piene e significative e lasciando spazio al rimpianto solo quando ormai è troppo tardi.¹ Come se non bastasse, il patto narrativo stesso viene inficiato alle proprie basi. La narrazione che abbiamo tacitamente accettato di prendere per vera si rivela costruita apposta perché il lettore vi inciampi e sia portato a non notare dettagli fondamentali. I narratori si esprimono in modi mai completamente espliciti che garantiscano una via di fuga dagli scivoloni di sincerità, costringendo il lettore a prestare attenzione e a mantenere un atteggiamento estremamente critico di fronte ai più piccoli componenti della sintassi e alle scelte lessicali.
Queste mura e barriere, tuttavia, sono un’occasione per il lettore. La fatica operata per farsi largo tra le bugie, le mezze verità, i sentimenti celati dei narratori e degli altri personaggi è un esercizio che si può riportare alla propria esperienza di singoli. Fino a che punto possiamo fidarci di noi stessi? E di quanto ci raccontano gli altri? Siamo davvero comunicativi? Siamo in grado, come durante la lettura, di superare l’apparenza del linguaggio e di andare oltre, di scoprire ciò che realmente l’altro prova ed essere pronti ad ascoltare?
¹È da tenersi presente l’esperienza di vita di Ishiguro, nato e cresciuto a Nagasaki fino ai sei anni e poi scaraventato nel Surrey.