Tutto ci disse addio, ma non le canzonette 

IN PRIMA LINEA

tempo di lettura: 3 minuti e mezzo

I miei nonni vivono in un paese in montagna. No, non nella montagna nevosa e rocciosa che probabilmente avete in mente. Vivono sul fianco di un vecchio vulcano inattivo da sempre, in Toscana. Ho passato nel loro paese molto tempo, soprattutto per le vacanze. Non c’è mai molto da fare in paese e da piccolo non ero mai particolarmente contento quando mamma iniziava a vociare della nostra salita. Poi uno va via, scopre questa cosa tremenda che è il rumore del traffico e si ritrova a sognare di vivere all’ombra di un obelisco grigio sotto il “paese vecchio”. 

La frequentazione con i nonni si è rarefatta, come consegue alla crescita e ai primi traslochi fuori dal nido. Negli ultimi anni mi sembra che si siano rarefatti anche un po’ i miei nonni. Non sono scoloriti, anzi gli occhioni di nonno M. sono sempre più azzurri, e l’artificiosa decoloratura di nonna M. rimane indomita nel tempo. Al netto di retine e chiome le loro frasi si ingolfano e le parole incedono nel biascichio. 

Non ho mai dovuto misurarmi col mistero della morte, ma è strano pure misurarsi con quello dell’invecchiamento. I miei nonni si fanno silenziosi e io mi domando cosa è che rimane. 

Questa domanda me la ponevo qualche giorno fa rispetto a Edith Bruck e Liliana Segre, due nonne sopravvissute allo sterminio nazifascista. Avrei voluto onorare la Giornata della Memoria cercando di rispondere alla domanda: “Cosa rimane di una memoria indicibile?”. Non ci sono riuscito, perché ho scritto poco e il poco che ho scritto sembrava più un elogio funebre che un editoriale. Ho pensato, poi, che tutte le memorie hanno un che di indicibile. Ciò che in una dimensione tragica è vero del campo di concentramento è vero di molte altre storie guardate con la lente di ingrandimento. Ho una bisnonna che ricorda le squadracce fasciste picchiare “i rossi”, l’altra che ricorda le uniformi dei nazisti che bussano a casa, due nonni emigrati in un Piemonte ora irriconoscibile. Credo che il rumore delle bombe sia una cosa irraccontabile. E credo che perdere un babbo alla guerra sia una cosa irraccontabile. E credo che anche partorire sia una cosa forse irraccontabile. Pure innamorarsi, avere fame, scegliere queste parole: che tutto appartenga ad una realtà-magma che si fa solo sfiorare dal linguaggio?

E’ impossibile, forse, almeno qua sulla terra, che le parole penetrino le cose fino in fondo. Come quando guardavo gli europei in streaming e ho capito che avevamo vinto perché la strada si è riempita dell’urlo di festa di chi guardava la tv. C’è un ritardo, un interstizio incolmabile tra vita e linguaggio. Perché non rassegnarsi al silenzio? Questo pezzo lo sto scrivendo, noterà il lettore non del tutto rincoglionito da Sanremo, per cui una quadra alla storia ci deve essere. 

Proprio a Sanremo ascoltiamo (e giudichiamo e memiamo) un sacco di storie. Sono storie cantate in modo più o meno convincente, ma apprezziamo quando assomigliano un po’ alla nostra, quando dicono quella cosa lì meglio di come la diremmo noi. E’ il festival delle storie che si somigliano – o forse no, è il festival delle parole che si somigliano. Io non lo so cosa rimane di queste nostre storie fragili e di come si resiste alla marea di irracontabilità, ma credo che parte della risposta stia nel come. Non il come del modo, né quello dell’equazione, ma quello dell’approssimazione. Un’approssimazione aperta, sempre intenta a riaggiustarsi – ma che ci permetta di dire “cavolo, i pezzi della mia storia servono a capire la tua” al netto dell’unicità di tutto e dei secoli e dei mondi che ci separano. C’è un come ad unire storie fatte dello stesso dolore e della stessa felicità e canzonette unite dalle stesse note e lo stesso alfabeto.

Non saprò mai cosa hanno vissuto i miei nonni e tanto meno Liliana Segre, ma canticchio tra me e me la cadenza del loro racconto mentre cammino nel mio. Sono fiducioso di ritrovarli per sempre nelle stesse note e nello stesso alfabeto. La memoria non conia più monete.//Tutto ci disse addio, tutto svanisce./E tuttavia qualcosa c’è che resta/ E tuttavia qualcosa c’è che geme. (J. L. Borges, Son Los Rios)

di Giovanni Cerboni

Immagine generata da un’intelligenza artificiale, Giovanni Cerboni

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