Mi chiedo da sempre e non ho ancora la risposta a che servono le preghiere se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente o non senti, non vedi o se sei l’invenzione di una mente superiore, inimmaginabile o sei Tu che hai inventato Te stesso? Io, che ho sempre scritto d’un fiato giorno dopo giorno, ora improvvisamente mi fermo con la mano sospesa e lo sguardo fisso sul vuoto, è nel vuoto che Ti cerco.
Il pane perduto di Edith Bruck, edito da La nave di Teseo (2021), è il libro di una vita. Edith Bruck (nome d’arte di Edith Steinschreiber), scrittrice e poetessa ungherese naturalizzata italiana, decide, a 89 anni, di ripercorrere in poco più di 120 pagine la sé bambina nel villaggio natale, la paura e l’incomprensione di fronte alla discriminazione crescente, l’orrore della deportazione e infine la ricostruzione apparentemente impossibile di un’esistenza fino al raggiungimento di un nuovo precario equilibrio. La piccola Ditke (diminutivo con cui Edith Bruck si riferisce a sé stessa bambina) cresce a Tiszabercel, piccolo villaggio ungherese, ultima di sei figli. A 13 anni, nella primavera del 1944, viene deportata. Nei campi perde la madre, il padre e il fratello, salvandosi lei sola insieme alla sorella maggiore Judith, con cui manterrà per tutta la vita un legame viscerale. Il tentativo di integrazione nella realtà del dopoguerra si rivela in larghissima parte doloroso e fallimentare, per l’incapacità dei familiari di Edith di ricostruire il rapporto precedente alla deportazione e per l’estraneità che la giovane sente nei confronti di un mondo di cui non fa più parte. Dopo una serie estenuante di peregrinazioni senza sbocco, dalla Cecoslovacchia, dove risiedono altre due sorelle di Edith, al neonato Israele, a svariate capitali europee, l’Italia si rivela essere finalmente un luogo di approdo stabile, dove Edith ricostruisce la sua identità persa e incontra l’amore della sua vita, il poeta e regista Nelo Risi. Il libro si conclude con una toccante e imprevedibile lettera a Dio, che sancisce la fine della personale riflessione esistenziale dell’autrice.
Di fronte a questo tipo di storie, è difficile giudicare il libro come semplicemente libro, scorporandolo dal suo contenuto che, in quanto vita vissuta, è al di fuori di ogni giudizio di valore. La storia di Edith Bruck viene da lei raccontata con una leggerezza disarmante, tagliente per la semplicità assoluta. La Bruck sceglie una spontaneità e sincerità commoventi, sia quando ricorda con parole cariche di affetto e nostalgia la sua infanzia per troppo poco tempo serena, sia mentre rievoca le atrocità del campo di concentramento, ricordate con la nitidezza di una bambina di tredici anni segnata a vita, sia durante il racconto della tragica difficoltà di integrarsi nuovamente nella normalità dopo esserne vissuti completamente al di fuori ed essere stati privati di tutto.
Ciò che colpisce è che la donna autrice di 89 anni guarda agli accadimenti della sua vita con la stessa incredulità della sé bambina. Non è ognuno libero di essere quello che è se non nuoce a nessuno? Questa è la domanda così banale, eppure irrisolvibile, che sembra condensare la riflessione di Edith Bruck. Da una parte, una vita passata nel tentativo di razionalizzare e perdonare il passato; dall’altra, l’impossibilità di comprendere e lo sgomento di fronte al male immotivato. E, in questo senso, l’ultima lettera a Dio è la necessaria conclusione alla meditazione autobiografica di Edith Bruck. Una lettera intima, profonda, che con le solite parole purissime dell’autrice si rivolge a un Dio con una fede commovente ma carica di irrisolvibili interrogativi.
Il pane perduto è un libro breve, che si legge d’un fiato, in un paio di giorni al massimo e senza alcuno sforzo. Il lettore è senza dubbio invogliato a continuare e finire la lettura e questo è tutto ciò, in fondo, che si dovrebbe chiedere da un libro. Allo stesso tempo, è una scrittura semplice, sicuramente in modo voluto, la cui qualità principale è senz’altro il contenuto; è un libro piacevole e scorrevole, ma che, almeno ai miei occhi acerbi, non spicca davvero per la qualità letteraria intrinseca. Nonostante ciò, è un libro da leggere, avere e regalare. Per la purezza delle parole, per il senso di vita che traspare.
Perché potrebbe vincere: perché è una storia senza tempo, necessaria da conoscere, raccontata con parole pure e intrise di vita. Parla a ciascuno di noi, direttamente. Ci rende tutti responsabili. E penso ce ne sia bisogno.