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The sound of metal è un film del 2019 diretto da Darius Marder, nel suo esordio alla regia. Nel 2021 è stato candidato a ben sei premi Oscar, tra cui alcuni dei più importanti del festival: miglior film, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura originale. Anche il comparto sonoro e il montaggio, fondamentali nel film, competono per due delle sei statuette. La sesta candidatura, infine, è per il miglior attore non protagonista.
La trama: 4,5

Ruben Stone (Riz Ahmed), un batterista con un passato da tossico ma pulito da quattro anni, forma una band punk con la fidanzata Lou (Olivia Cooke) e cantante del duo, ma perde progressivamente l’udito. Ruben viene quindi convinto da Lou ad affidarsi a una comunità di sordi con un programma gestito da un veterano del Vietnam, sordo anch’egli. Qui Ruben dovrà provare ad accettare la sua disabilità e a trasformare l’handicap in una condizione ineliminabile, ma accettabile, della sua nuova esistenza. Questa, in poche righe, la trama del film: ora passiamo al nucleo filosofico.
E’ il destino, ancora una volta, il vero protagonista, con la sua legge eterna e immutabile, forte come un cataclisma, necessario come il ciclo delle stagioni. E, di conseguenza, l’uomo è la vittima inconsapevole del corso delle cose, l’innocente che soffre e non sa perché. Ruben è uno spaesato Giobbe che si guarda intorno freneticamente, come se tentasse di cogliere i suoni attraverso lo sguardo, e tuttavia non sente, non può sentire. Ruben, sventurato prigioniero in un mondo pieno di silenzio; ma è, questo, un silenzio particolare, che fa rumore, è un silenzio insensato, sordo e pesante come il piombo. E’ Il silenzio di chi è abituato a sentire, non pura presenza dello stesso, ma tremenda assenza di suono, condizione privativa, risultato di una tragica perdita, nostalgia disperata di un bene perduto. Ruben si trova, all’inizio, ad un crocevia fra due mondi, entrambi incomprensibili, mancanti di senso: quello dei sordi, a cui ancora non appartiene, di cui non comprende i gesti e la lingua, e quello degli udenti, a cui non appartiene più.

Spinti da questo destino inesorabile, i protagonisti si dividono e si muovono in un mondo reso irriconoscibile ad entrambi: a lui, per l’improvvisa discesa in un inferno privo di suoni, a lei, per il repentino cambio di vita, a cui è costretta per amore di lui, e che la porta a tornare a casa dal padre, col quale riallaccerà i rapporti, e dove finalmente ritroverà una sua normalità e farà scomparire i tagli sulle braccia, sintomi inequivocabili di una vita piena di ansia e insoddisfazione. Un costoso apparecchio acustico, per l’acquisto del quale dovrà vendere camper e batteria, permetterà a Ruben, non ancora capace di accettare la sua condizione, di tornare a sentire, ma si accorgerà ben presto di quanto siano mostruosi, alienanti, metallici quei suoni che ora, purtroppo o per fortuna, riesce a cogliere. Da questo passaggio, cruciale per il film, deriva il titolo The Sound of Metal. I due amanti si rincontrano verso la fine del film ma, ormai divisi, si lasceranno con un dialogo che si fonda sul non detto e sul silenzio, che si riconferma così centrale per il film, proprio in quanto condizione di ogni parola, affetto, suono e gesto.
Ad un certo punto, alla domande di Ruben se volesse tornare alla vita di prima Lou si inizia a grattare il braccio, ora privo di tagli. Lui nota quel gesto, capisce, dice “non importa”. “Non importa cosa?” chiede lei con le lacrime agli occhi,.“Non importa” ripete lui, e i due si abbracciano, consapevoli di essersi salvati a vicenda, pronti ad accettare il loro destino e a ricominciare a vivere, ognuno per la propria strada. Nella scena finale, Ruben, seduto su una panchina, getta via quell’apparecchio acustico che lo imprigionava ad un mondo trasfigurato e pieno di suoni distorti, dove la voce e il canto dell’amata non erano altro che rumori metallici; la regia indugia quindi sul campanile di una chiesa, non più rumore, sui ragazzi che si divertono con lo skateboard, non più rumore, sui raggi di sole fra le fronde di un albero, non più rumore, resta una cosa soltanto: non più silenzio, ma meravigliosa quiete.
La regia: 3,5

La regia di Marder è una regia solida e matura, nonostante questo sia il suo primo film come regista: non indugia in sentimentalismi, come la sua sceneggiatura del resto, ma non disdegna neppure il tentativo di far empatizzare lo spettatore con la vicenda esistenziale di Ruben, per esempio quando la telecamera si avvicina al protagonista e ci permette di “sentire” quello che “sente” lui, sia in senso psicologico (la sua ansia, il suo terrore), sia in senso puramente fisico (la sua sordità). Ne viene fuori uno sguardo alle volte quasi documentaristico, come quando viene descritta la vita di Ruben all’interno della comunità, ma allo stesso tempo capace di restituire il punto di vista del soggetto umano, il suo smarrimento all’inizio e la sua serenità alla fine, attraverso un gioco di sguardi, di espressioni, di gesti, e, soprattutto, di silenzi.

Il cast: 4,5

Entrambi i protagonisti svolgono un’ottima prova attoriale. Riz Ahmed, il quale, per inciso, ha preso per l’occasione lezioni di batteria e imparato la lingua dei segni americana, riesce ad esprimere pienamente, attraverso le sue espressioni turbate ed impazienti, il suo viso poco incline al sorriso, al sollievo, una grande varietà e contraddittorietà di emozioni. Riesce ad andare dall’amore alla tristezza più nera, dall’ottimismo alla perdita di ogni speranza, e infine giunge all’accettazione, alla catarsi, alla quiete. Olivia Cooke recita splendidamente la parte di una fidanzata che salva il suo ragazzo ben due volte, prima, dalla tossico-dipendenza, poi, dall’impazzire completamente a causa dell’improvvisa sordità; anche lei, come il suo collega, restituisce attraverso i silenzi, i pianti e le espressioni una condizione di precarietà da cui riesce a uscire soltanto alla fine, attraverso un abbraccio e un pianto liberatorio. Merita una citazione anche l’ottima prova attoriale di Paul Raci, il quale, scelto anche perché figlio di genitori sordi, recita molto bene la parte del veterano che gestisce il programma della comunità in cui entra Ruben.
Conclusioni
Una grande opera, insomma, sotto ogni punto di vista. Regia, sceneggiatura, comparto attoriale, montaggio video e audio, lavorano insieme quasi alla perfezione, sfornando un film meraviglioso, un capolavoro, mi arrischierei a dire, dove ogni cosa ha il suo posto e la totalità che ne viene fuori è infinitamente di più della semplice somma delle parti. Potrebbe certamente esserci qualche piccolo difetto, tanto più che, confesso, mi riesce difficile essere completamente obiettivo dopo aver visto un film tanto bello quanto raro, ma cosa sarebbero poi, questi difettucci, in confronto al tutto? Forse niente o poco più.
Buona visione!
di Francesco Atti