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Oggi è il 25 aprile, la festa della Liberazione. Io avrei voluto essere in piazza, a manifestare per ribadire l’importanza dell’antifascismo in una maniera che fosse innanzitutto comunitaria.
Invece sono seduta alla scrivania, a fissare per l’ennesima giornata lo schermo del mio pc, che è un po’ antifascista pure lui. Tuttavia, vorrei che questo 25 aprile così strano non ci facesse dimenticare i valori che sono stati propri della Resistenza; ho dunque scelto di ricordarli passando virtualmente per tre luoghi della bergamasca, che sono per me simbolo della Resistenza popolare della mia città e dei valori che incarna.

Il primo è nella parte alta della città di Bergamo, nascosto in un vicolo che da lui prende il nome; si tratta dell’ex carcere di Sant’Agata.
Molti dei protagonisti della resistenza lombarda sono passati tra le sue celle, per essere interrogati, spesso prima di partire per i campi di internamento in Germania. Le mura del carcere di Sant’Agata però non hanno visto soltanto guerra e violenza, ma anche storie incredibili di amicizia, coraggio e mutuo aiuto. Alcune si trovano sul sito dell’ISREC, che proprio alle persone che sono passate dal carcere sta dedicando una serie di progetti.
Ma la motivazione storica non è l’unica che lega il vicolo Sant’Agata alla Resistenza. Oggi infatti gli edifici che furono del carcere sono diventati spazi di progetti sociali che fanno dei valori dell’antifascismo il loro punto di partenza. Il centro sociale Maite e la compagnia teatrale Chapati, per esempio, proprio qui contribuiscono a costruire una Bergamo libera, solidale e antifascista, credendo nelle relazioni umane e rendendole oggetto e soggetto primo delle loro iniziative.

Il secondo luogo di questa mappa resistente si trova nella via che collega Città Alta a Città Bassa, via Pignolo.
Qui, tra le facciate dei palazzi signorili del XVI secolo si possono distinguere alcune targhe commemorative. Nell’ex Collegio Baroni, dove ora ha sede il dipartimento di lettere, filosofia e comunicazione dell’università, dopo il 1943 si installò il Comando della Gendarmeria germanica che lo trasformò in un carcere politico. La mia professoressa di filosofia del liceo raccontava spesso delle vicende del padre, Vincenzo Breda, partigiano della banda Turani. In realtà, Vincenzo non stette mai in prigione al Collegio Baroni. Ci arrivò però il padre Mario, che i nazisti catturarono come ostaggio per il figlio partigiano.
“Giunto al Convitto,” racconta Mario in una testimonianza “fui internato. Ebbe inizio la serie degli interrogatori, intesi a farmi rivelare il rifugio di mio figlio Vince, e cominciarono le percosse, le sofferenze di vedere Turani, Locatelli, Consonni [membri della banda del figlio N.d.A] contusi e insanguinati dopo gli interrogatori.
Mio figlio Vittorio [anch’egli detenuto visto il ruolo nella Resistenza del fratello N.d.A] appena arrivato al Convitto fu messo contro un muro del corridoio insieme ad Evaristo Locatelli e ad Esposito. Vi fu trattenuto per una notte e un giorno. Invece Evaristo Locatelli, asmatico e sofferente di cuore, venne trattenuto per tre giorni in piedi in quel corridoio e ogni volta che passavano, i militi delle SS gli davano un forte pugno alla nuca facendogli urtare la fronte contro il muro. Quando ciò fu ripetuto per 20-25 volte, il Locatelli cadde a terra esausto, e in quelle condizioni venne interrogato: non disse una parola, e pertanto venne preso a calci e a colpi di sedia metallica sulla testa.
Un giorno venne portato al Convitto un giovane, prelevato dalla Chiesa delle Grazie mentre pregava. Poiché i tedeschi stavano inseguendo un giovane che aveva attraversato la Chiesa in quel momento, pretendevano che il catturato dicesse da che parte fosse fuggito: lo percossero con calci, moschettate, e poi con una sedia metallica sul capo, fino a fracassarglielo.”
Questi episodi sono ricordi emblematici delle violenze che accadevano tra le mura del Collegio Baroni. Nel frattempo Vincenzo, condannato 9 volte a morte, 5 dai fascisti e 4 dai nazisti, riuscì a rimanere nascosto, continuando addirittura a studiare medicina. Aveva i documenti falsi, e in un quadernino appuntava le storie di tanti resistenti bergamaschi.
Poco lontano dall’ex Collegio Baroni, sempre in via Pignolo, si trova la lapide a Ferruccio dell’Orto; il diciassettenne morì sotto le torture fasciste dopo la cattura durante un’azione di disarmo, compiuta insieme a Angelica “Cocca” Casile, che oggi qualcuno ha raffigurato sul muro accanto alla lapide del ragazzo e che meriterebbe un articolo a parte per la sua storia di donna partigiana.

Ma sono i documenti di Vincenzo Breda che ci portano al terzo luogo che vorrei raccontare, la Malga Lunga.
Si trova fuori dall’area urbana, tra Sovere e Gandino, in una zona, quella delle montagne delle Valle Seriana, che fu tutta teatro della Resistenza; oggi la malga è un museo dove, in formato digitale, si possono consultare documenti legati alla Resistenza, tra cui quelli di Vicenzo Breda.
La Malga Lunga fu base partigiana nell’inverno del 1944 e proprio a questo periodo risale la vicenda per cui è nota in valle, che coinvolge gli uomini della 53° brigata Garibaldi “13 rose”, che prendeva il nome da 13 partigiani fucilati sul lago di Lovere nel dicembre 1943. Il 17 novembre 1944 la neve scese abbondante e rese difficili gli spostamenti e i turni di guardia. Questo permise alle forze fasciste della legione Tagliamento, salite sulle montagne a caccia di ribelli, di accerchiare e attaccare di sorpresa la malga. I partigiani all’interno erano otto, di cui due feriti nello scontro.
I partigiani si arresero, e i due feriti vennero finiti sul posto. Gli altri sei vennero portati a valle per gli interrogatori, nonostante i tentativi degli altri partigiani presenti nell’area di liberarli. Tutti furono condannati a morte, tranne il comandante della Brigata, Giorgio Paglia, che i fascisti graziarono in quanto figlio di una medaglia d’oro nella guerra d’Africa. Giorgio tuttavia rifiutò la grazia e anzi, chiese di poter essere fucilato per primo, così che i compagni vedessero che lui sarebbe morto con loro. Il 21 novembre 1944, i militari eseguirono la condanna e fucilarono i partigiani a Costa Volpino.
Oggi, la Malga Lunga è un luogo di memoria vissuta; il ricordo e l’affermazione dei valori dell’antifascismo passano infatti attraverso iniziative che possano coinvolgere tutta la comunità. Ma le vicende della brigata di Giorgio Paglia sono emblematiche anche per un altro motivo: quattro degli otto partigiani uccisi erano infatti russi, a dimostrazione che la base della Resistenza, al di là della nazionalità o dell’ideologia, era la solidarietà fra esseri umani, quella stessa che oggi io vorrei fosse primaria nelle nostre vite.
Spero, attraversando le vicende di questi luoghi e di queste persone, di avervi raccontato un po’ del “mio” 25 aprile.
Solidarietà, libertà, spirito critico, coraggio: la Resistenza ci racconta questo, e altro che ciascuno può leggere a seconda della propria sensibilità personale. Buon 25 aprile, dunque: non ci saranno le piazze piene, quest’anno, ma nulla ci impedisce di gridare “forte, tra tanta indifferenza, ora e sempre, Resistenza!”


di Silvia Ruggeri