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Alle prese con la seconda esperienza da regista, lo sceneggiatore Aaron Sorkin decide di portare sullo schermo Il processo ai Chicago 7, dove racconta dello scandaloso caso giudiziario che nel 1969 aveva coinvolto quelli che negli anni Sessanta erano considerati i più famosi (e pericolosi) manifestanti contro la guerra in Vietnam, suscitando scandalo in tutto il mondo. Dopo aver fatto incetta di nominations ai Golden Globes (e aver trionfato per la miglior sceneggiatura), il film si presenta alla 93^ edizione degli Oscar con ben sei candidature: miglior film, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior canzone originale, miglior montaggio e miglior fotografia.
Trama: 4/5

Come ogni film storico che si rispetti, Il processo ai Chicago 7 si propone di portare al pubblico tutta la verità, solo la verità, nient’altro che la verità e lo fa incentrando la trama sul processo tenutosi nel ’69 alla corte distrettuale di Chicago. I protagonisti della pellicola si trovano, infatti, tutti al banco degli imputati: Tom Hayden e Rennie Davis, leader del movimento Studenti per una Società Democratica (SDS), Abbie Hoffman e Jerry Robin, leader del Partito Internazionale della Gioventù (Yippie), David Dellinger, leader del Comitato di Mobilitazione Internazionale per finire la guerra in Vietnam (MOBE), Lee Weiner e John Froines. Alla schiera di protagonisti si aggiunge Bobby Seale, presidente del movimento delle Pantere Nere, non annoverato tra i sette perché non sotto l’egida dell’avvocato William Kunstler.

Da sinistra a destra, i veri e propri Chicago 7 e i loro legali: l’avvocato Leonard Weinglass, Rennie Davis, Abbie Hoffman, Lee Weiner, David Dellinger, John Froines, Jerry Rubin, Tom Hayden, e l’avvocato William Kunstler
Appartenenti a diversi partiti, movimenti, e ideologie, agli occhi del procuratore federale Richard Schultz i sette (più uno) diventano semplicemente la “sinistra radicale”. L’accusa comune: aver dato inizio al violento scontro con la Guardia Nazionale durante la 35^ Convention Nazionale Democratica a Chicago. I sette vengono in particolare accusati di aver infranto la legge federale Rap Brown. Di fatto, come conferma il procuratore federale stesso all’inizio del film, si tratta di una legge creata dai bianchi per limitare la libertà di parola degli attivisti neri, mai messa in atto prima di allora.
Gli imputati di questo “oscar delle proteste”, come dice Lee Weiner nel film, sono stati scelti proprio perché simbolo della rivoluzione, di quell’attivismo politico che tanto spaventava il governo americano di quegli anni. Ciò che va in scena non è un processo giuridico, bensì un processo politico, con un esito ingiusto stabilito ancor prima di iniziare la causa legale. Ma chi ha scatenato veramente la rivolta? I manifestanti o la polizia? La verità giace in questa cruciale domanda cui verrà data risposta soltanto alla fine del film.
Regia: 3/5

Aaron Sorkin, abituato a gestire pellicole biografiche e storiche, è per il film sia regista che sceneggiatore. Quest’ultimo ruolo lo ha già portato agli onori della cronaca, con film quali Codice d’onore (1992), La guerra di Charlie Wilson (2007) e Steve Jobs (2015), e gli è valso la conquista di un Oscar nel 2011 per la sceneggiatura di The Social Network (2010) di David Fincher. A commissionargli l’incarico di dirigere Il Processo ai Chicago 7 è stato lo stesso Steven Spielberg, presente durante le riprese, che da anni aveva il desiderio di creare l’adattamento del caso giudiziario.
Sia la regia che la sceneggiatura sono molto “pulite”, forse in modo eccessivo, con qualche battuta d’effetto e sviolinata di troppo da parte della colonna sonora; molto più azzeccati sono invece i brani dell’epoca che ogni tanto vengono inseriti. Il soggetto del film era già di per sé potente; mantenerlo più asciutto, meno registicamente arricchito, gli avrebbe conferito un livello documentario e storico maggiore.
Una scelta efficace e che mantiene alto il grado di attenzione dello spettatore per tutta la durata del film è, invece, quella di svelare mano a mano al pubblico, tramite i resoconti dei testimoni, i fatti del 28 agosto 1968, giorno della rivolta.
La dinamicità della pellicola, però, è frutto dell’opera del montatore Alan Baumgarten, già candidato agli Oscar nel 2014 per American Hustle – L’apparenza inganna (2013). Con un intelligente gioco di sovrapposizione di discorsi, all’inizio del film vengono non solo introdotti gli otto imputati, ma anche sottolineate le grandi differenze tra loro. Inoltre, il montaggio conferisce grande fluidità anche ai salti temporali e spaziali che si susseguono tra le testimonianze in tribunale e i flashback del giorno della Convention. Infine, al pubblico viene di volta in volta ricordata la storicità dei fatti di cui si parla: le scene dello scontro dei manifestanti con la polizia a Grant Park sono intervellate a reportage dell’epoca; allo stesso modo è ritratta la morte di Fred Hampton, collega e amico di Bobby Seale, ucciso durante un raid della polizia. A questo proposito, a suscitare scandalo in tutto il globo era stato proprio, non a caso, la grande copertura mediatica della vicenda: “tutto il mondo ci guarda” urlava la folla appostata davanti alla Corte distrettuale di Chicago.
Cast: 3/5

Il budget della produzione del film ammonta a 35 milioni, di cui 11 milioni per il cast, che infatti conta un cospicuo numero di star internazionali: vi sono gli inglesi Eddie Redmayne, che dalla rivoluzione francese in Les Miserables (2012) è passato alla rivoluzione contro la guerra in Vietnam, assumendo un accento americano (quasi) sempre convincente, e Mark Rylance, molto abile nei panni dell’avvocato difensore William Kunstler. Brilla l’americano Micheal Keaton nei panni dell’ex Procuratore generale Ramsey Clark, piccola comparsa nel finale.
Spiccano gli americani Frank Langella e l’inglese Sacha Baron Cohen, che interpretano i personaggi -omonimi- del giudice Julius Hoffman e l’attivista Abbie Hoffman, entrambi ruoli a forte rischio di diventare delle macchiette: il giudice ingiusto (e un po’ tonto) e lo hippie sfacciato e costantemente strafatto. Langella riesce a essere insopportabile e a conquistarsi, così, l’antipatia del pubblico, mantenendo al contempo la credibilità del suo personaggio. Cohen, invece, riesce a conferire profondità, e nuove e (forse) sconosciute sfaccettature a un personaggio già così noto nell’America dagli anni Sessanta in poi. L’attore è, infatti, l’unico nel cast ad aver ricevuto una nomination come miglior attore non protagonista.

Sacha Baron Cohen (Abbie Hoffman) e Jeremy Strong (Jerry Rubin) in una scena del film
In fin dei conti, essendo i personaggi ridotti a quelli presenti al processo, era importante che “l’unione facesse la forza”. La vittoria dello Screen Actors Guild Awards per il miglior cast cinematografico conferma il successo di questa unione.
Conclusione
Il processo ai Chicago 7 sembra avere tutte le carte in regola per piacere all’Academy. Non da escludere anche una possibile vittoria nelle categorie tecniche (come il miglior montaggio). Per quanto concerne la statuetta d’oro più ambita, se gli Awards dovessero continuare la tendenza, ormai consolidata, di aggiudicarla, ogni due o tre anni, a un film di carattere storico – negli ultimi anni Il caso Spotlight (2015) e Green Book (2018) – l’opera di Sorkin si contenderebbe comunque il primo posto con Mank e Judas and the Black Messiah. Interessante il fatto che il protagonista di quest’ultimo film sia proprio Fred Hampton, la pantera nera uccisa dall’FBI e dalla polizia di Chicago. I tempi sembrano ormai maturi per raccontare questi due (di molti) episodi di grande ingiustizia, avvenuti in un periodo in cui l’America, come dice all’inizio del film un conduttore del telegiornale, era a tutti gli effetti “uno stato di polizia”. Da notare come l’intenzione iniziale di Spielberg fosse quella di far coincidere l’uscita de Il processo ai Chicago 7 con il periodo precedente alle presidenziali americane del 2008, e che, soltanto dopo una serie di fallimentari tentativi, il progetto venne rispolverato, non a caso, in seguito alle elezioni del 2016. Forse un ammonimento all’America: il film va visto proprio perché le vicende che narra, così come altre storie affini, devono essere conosciute se non si vuole ricadere negli errori del passato. Vi auguro una buona visione.
di Anna Vullo