Inizialmente prevista come parte delle nostre playlist a tema colori, quest’ode ai Pink Floyd è diventata tanto lunga e articolata che ci è sembrato il caso di pubblicarla come articolo a sé stante.
Quali artisti sono stati più abili ad esprimere con la loro musica tutti i colori dell’arcobaleno, se non i Pink Floyd? Non è un caso se solo nel primo articolo di questa rubrica, che ho il piacere di concludere, erano già nominati due brani di questo gruppo. Poche band oltre ai Pink Floyd sono riuscite a giocare così bene con gli arrangiamenti, l’armonia, le invenzioni melodiche e timbriche, in modo da creare un sound così ricco di sfumature, così complesso eppure così diretto. La sperimentazione, per i Pink Floyd, non è mai fine a sé stessa: il gruppo ha sempre rifuggito i virtuosismi degli Emerson Lake and Palmer, la pomposità dei primi Genesis, la sofisticata complessità degli Yes o i barocchismi delle suite dei Jethro Tull; il loro rock psichedelico è sempre stato finalizzato a colpire l’ascoltatore con immagini forti e vivide.
Già dalle loro prime coinvolgenti esibizioni nell’underground londinese, i Pink Floyd di Syd Barrett si sono subito fatti notare per il loro massiccio utilizzo di immagini e luci colorate proiettate direttamente sui musicisti, che accompagnavano perfettamente le loro allucinate performance. Se dopo l’allontanamento di Barrett dal gruppo, la band ha avuto un’evoluzione a livello compositivo, con testi meno bizzarri e più introspettivi e con brani più articolati nella forma, i Pink Floyd, anche nelle successive esibizioni, hanno sempre tenuto a mente la lezione del loro primo leader, utilizzando in maniera innovativa fuochi d’artificio, luci, palloni gonfiabili e proiezioni di filmati. Come dimenticare poi le loro emblematiche copertine, disegnate dal leggendario studio Hipgnosis. Il maiale volante tra le ciminiere delle fabbriche di Animals, la stretta di mano tra uomini in fiamme di Wish You Were Here, la mucca bianca e nera sul prato verde di Athom Heart Mother… Per l’arcobaleno poi, il riferimento al prisma sulla cover di The Dark Side of the Moon è quasi scontato.
Time è forse la canzone dell’album che offre più possibilità di accostamenti cromatici, per la sua incredibile varietà sonora: consiglio di ascoltare la canzone mentre andate avanti con la lettura, concentrandovi sulle varie suggestioni visive che offre la musica. L’introduzione, registrata con l’innovativa tecnica della quadrifonia e curata dal tecnico del suono Alan Parsons, comincia con un ticchettio di orologio che prorompe nel clangore di infinite sveglie, poi una pulsazione continua scandisce il ritmo, quasi come un battito cardiaco accelerato; intanto il basso, la chitarra e l’organo dipingono il tappeto sonoro con lunghe pennellate scure, mentre i leggeri arpeggi della tastiera aggiungono un po’ di colore… Gli assoli di Rototom di Nick Mason completano il quadro, come dei buchi nella tela. A poco a poco il sound si schiarisce, e un fill di batteria introduce la prima strofa. La canzone assume un andamento rockeggiante: il testo di Roger Waters è un’amara riflessione sullo scorrere del tempo, mentre la musica, per la quale hanno contribuito tutti i componenti del gruppo, è tra le più suggestive della carriera della band, con un’amplissima varietà timbrica. La canzone presenta tre differenti sezioni che si alternano: la voce di David Gilmour sovrasta la prima sezione, commentata dal dialogo sincopato tra la tastiera e la chitarra, in perfetta stereofonia; la seconda sezione, cantata da Richard Wright, è più morbida, con l’organo e i cori che creano una dolce armonia. Poi parte il fantastico assolo di Gilmour su tutta la struttura, che ci riporta da capo alle due sezioni cantate. “The time is gone, the song is over, thought I’d something more to say” conclude Wright.
La canzone sembra davvero finita, ma i Pink Floyd hanno ancora qualcosa da dire: ci sorprendono nuovamente con una terza sezione, la ripresa di Breath, un altro brano comparso precedentemente nell’album. Il testo, che congiunge i temi trattati nei due diversi brani, parla della necessità dell’uomo di avere un momento di riposo. La breve ripresa mantiene l’arrangiamento di Time: ad un primo momento più rock, con il solito intreccio di chitarra e tastiera, si contrappone una parte più soft, dominata dagli accordi dell’organo, che spegnendosi dolcemente chiude questo caleidoscopico capolavoro della band britannica.
di Dario Caporuscio