Il dodicesimo viaggio: “John Ruskin – Le Pietre di Venezia” a Palazzo Ducale

«Ma allora lei fa come Brodskij», commenta la professoressa Anna Ottani Cavina quando, interpellato, mi qualifico come studente di lingua e letteratura russa. Il paragone è quantomeno audace, per non dire irrispettoso nei confronti del grande poeta russo, ed è forse solo l’amore per Venezia ad accomunare me e l’autore di Fondamenta degli Incurabili – testo la cui lettura, io credo, dovrebbe essere obbligatoria per qualsiasi estimatore e abitatore più o meno passeggero della città lagunare. Il contesto in cui la nostra breve e piacevole conversazione si svolge, poi, è a dir poco calzante: nella suggestiva cornice di Palazzo Franchetti, presso l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, ha infatti luogo il 15 maggio 2018 la conferenza John Ruskin. Ritratto d’artista, tenuta proprio da Anna Ottani Cavina e intesa come logico e utile complemento alla mostra di cui è curatrice: trattasi di John Ruskin – Le Pietre di Venezia, di scena dal 10 marzo al 10 giugno in un luogo per niente casuale come Palazzo Ducale. 

Volendo abbandonarci a considerazioni vagamente romantiche, vale la pena rilevare la poeticità del “ritorno” di John Ruskin (1819-1900) in un edificio che egli stesso considerò “l’edificio centrale del mondo”, e si potrebbe quasi parlare di un ideale dodicesimo soggiorno dell’acquerellista (e non solo) inglese nella città sull’acqua: egli fu a Venezia ben undici volte tra il 1835 e il 1888, con lo scopo folle e ambizioso di documentare/denunciare lo sventramento e il decadimento della Serenissima, preda di degrado, incuria, restauri eufemisticamente selvaggi e invasivi, e di preservare fino all’ultima crepa e pietra del suo sembiante “gotico e bizantino, medievale e anticlassico” (quest’ultima una formula della curatrice, che così si esprime dalle pagine del catalogo della mostra). 

Proprio Le pietre di Venezia è il titolo dell’opera che Ruskin articola in tre volumi pubblicati tra il 1851 e il 1853, ricchi di illustrazioni e considerazioni che contribuiranno alla nascita del mito romantico di Venezia, le cui fondamenta erano state poste da Lord Byron, assieme alle tavole di formato ben più importante da Examples of the Architecture of Venice. E del compiersi di queste sue immani fatiche ci rende partecipi una consistente parte della mostra: già nel Museo dell’Opera di Palazzo Ducale, tappa obbligata per l’accesso all’esposizione e quasi prologo di quanto seguirà, capitelli e fusti di colonne tre e quattrocenteschi evocano atmosfere ruskiniane nel presentarci, in maniera piuttosto letterale, alcune “pietre di Venezia” – non a caso, uno dei capitelli della terza sala è, nell’opinione di Ruskin, “il più bello d’Europa”; attraverso le sale degli Appartamenti del Doge, nel cuore dell’esposizione si dispiega il modus operandi dell’autore, da taccuini divisi per tematica (palazzi, porte etc.) fitti di annotazioni e schizzi a lettere, fogli manoscritti assemblati con l’ausilio di ceralacca e testimonianze del suo febbrile lavoro, acquerelli e dagherrotipi (introdotti solo nel 1837 e di cui il nostro fu avido collezionista e utilizzatore, poiché permettevano ad esempio di “portarsi a casa” riproduzioni su supporto durevole di dettagli normalmente non accessibili al pubblico).  

Sin dall’inizio del percorso espositivo, appare comunque chiaro come Venezia, a sua volta, costituisca “solo” una pietra – piuttosto ingombrante, intendiamoci – del labirintico edificio che è John Ruskin. L’intimistico allestimento scenografico di Pier Luigi Pizzi, che non viene qui descritto in dettaglio per non rovinare la sorpresa a chi decidesse di visitare la mostra, valorizza grandemente le più di cento opere in prestito dai più disparati musei internazionali e delicatamente ci accompagna nella scoperta. Ruskin è critico letterario e artista che guarda al passato e lo reinterpreta (della quale cosa sono esempi i suoi studi dei maestri veneziani, da Tintoretto a Carpaccio), ma allo stesso tempo appare straordinariamente moderno nella difesa dei preraffaelliti e del genio di William Turner (di cui sono esposte tre tele a soggetto veneziano), per il quale nutre sconfinata ammirazione, con il quale si confronta e dialoga indirettamente, copiandolo e interpretandolo; Ruskin è adoratore della natura, riesce a cogliere un principio comune a tutto il creato tanto nelle vedute delle Alpi, che rappresenta eternando attimi ben precisi (spesso indica, a familiari o sui propri taccuini, la data e l’ora del giorno di una determinata “percezione” poi messa su carta), quanto in foglie morenti e conchiglie, forme ideali e quasi archetipiche; Ruskin è uomo fragile, non sempre capace di far fronte alla depressione che funesterà il corso della sua vita e condannato a relazioni sentimentali tormentate – particolarmente toccanti i due ritratti di Rose La Touche, della quale si innamorò a trentanove anni, quando lei ne aveva solo nove, e che non riuscirà a sposare prima che questa, mentalmente instabile e spesso preda di crisi nervose, muoia a ventisette anni. Ruskin è tutto questo e altro ancora, sempre fedele a se stesso nell’incessante “observing and feeling”, che si traduce in rappresentazioni basate sì sulla percezione sensoriale della realtà, ma rifratta attraverso il prisma del proprio sentire.

John Ruskin – Le Pietre di Venezia è la prima mostra in Italia a porsi l’ambizioso obiettivo di restituire nel modo più completo possibile la vita e l’opera di questo grande intellettuale, difficile da inquadrare in una sola disciplina, etichetta o epoca. E ci riesce superbamente, grazie al percorso narrativo ed espositivo ideato dalla curatrice e al già citato allestimento scenografico, minimale e discreto, il tutto al servizio della straordinaria mole di opere approdate temporaneamente in laguna. Contestualmente la Fondazione Musei Civici di Venezia, anche nella scelta di coinvolgere un’istituzione profondamente radicata nel territorio quale è il già menzionato Istituto Veneto, riesce a stimolare in modo costruttivo ed elegante il dibattito, quanto mai contemporaneo, sulla necessità di salvaguardare la città. 

Salvaguardarla, come i preziosi acquerelli di Ruskin che, a fronte di soli tre mesi sotto gli occhi del pubblico, dovranno poi tornare alle rispettive case e lì trascorrere, al riparo e nell’oscurità, due lunghi anni. Un peccato, sì. Ma è cosa nota che la bellezza va preservata perché non appassisca o, peggio, muoia come il manniano Gustav von Aschenbach, consumato da un morbo che prolifera anche grazie alla complicità della città.

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