Sorprese veneziane: la Scuola Grande dei Carmini

di Emanuele Castoldi

Nell’affollato flusso di studenti, turisti e locali che ogni giorno attraversa Campo S. Margherita, nel chiacchiericcio che risuona tra le case, tra gli spritz e i caffè ai tavoli, tra i banchi di frutta e di pesce con a vedetta gabbiani e piccioni, si trova uno di quei tesori che Venezia cela agli occhi dei passanti più superficiali. All’angolo con Campo dei Carmini un elegante edificio bianco osserva dalle sue due facciate gli affanni delle persone che gli scorrono davanti. È la Scuola Grande dei Carmini, poco conosciuta ai più, spesso considerata un monumento secondario nell’infinito panorama cittadino, e pertanto ignorata. Eppure, si tratta di uno degli innumerevoli canti del cigno che Venezia produsse appena prima della sua caduta e che la portarono ad essere, per l’ultima volta, una delle capitali indiscusse dell’arte e della cultura europea. Fondata nel 1594 sotto il dogado di Pasquale Cicogna come scuola devozionale di carità dedicata a S. Maria del Carmelo, fu elevata al rango di scuola grande nel 1767, ultima confraternita ad assurgere a tale titolo nella storia veneziana e prima aperta anche alle donne. Dopo le varie vicende di acquisizione dei terreni, dei primi progetti e dell’ampliamento della sede alle dimensioni attuali, nel 1668 fu chiamato il massimo architetto veneziano del momento, Baldassarre Longhena, per risistemare i prospetti delle due facciate. Nonostante non sia chiaro quanto significativo fu l’apporto del Longhena, che dovette adeguarsi alle preesistenze, il candido prospetto in pietra d’Istria vede una disposizione sì prestigiosa e imponente, ma incongrua: le due facciate non dialogano; su tre livelli quella verso i Carmini, a bugnato in quello inferiore, ma su due quella verso S. Margherita, più importante e monumentale, con i due ordini di paraste binate su alti pilastri. Tipici del gusto dell’epoca sono poi i mascheroni nelle chiavi dell’arco, mentre contribuiscono al prestigio dell’edificio il materiale della facciata, interamente in pietra d’Istria secondo gli usi architettonici veneziani, e le numerose aperture delle finestre. Internamente la struttura è suddivisa nei tipici spazi di una scuola: l’ampia cappella al pian terreno, la sala capitolare, quella dell’albergo, lo scalone. Ciò per cui, però, la Scuola è celebrata è il magnifico ciclo pittorico che la confraternita commissionò definitivamente a G.B. Tiepolo nel 1739 per la sala capitolare. I grandi teleri da soffitto (1740-49) costituiscono un unicum organico dell’arte veneziana del ‘700. Al Tiepolo, ultimo sole dell’arte italiana insieme a Canova, si devono la grande tela centrale con La Madonna consegna lo scapolare a S. Simone Stock, che sostituì la precedente Assunta del Padovanino (1638, ora nell’adiacente sala dell’albergo), e la serie di otto scomparti laterali per i quali fu inizialmente convocato: nelle tele angolari le personificazioni di virtù e beatitudini a gruppi di tre, nei riquadri intorno al telero centrale angeli intenti in diverse azioni, tra i quali uno è rappresentato nell’atto di salvare un muratore in caduta libera. Su precisa volontà dell’artista furono poi commissionate dalla confraternita anche le decorazioni in stucco, realizzate da Abbondio Stazio, colorate e dorate dal Tencalla. Alle pareti invece troviamo tele dello Zanchi, del Lazzarini e di Amedeo Heinz. La secentesca statua della Vergine collocata in altare è invece opera di Bernardino da Lugano ed è messa in risalto con uno scenografico gioco di luci dalle finestre ai lati dell’altare. Filo conduttore delle opere a soffitto è l’esaltazione dello scapolare, indumento di stoffa da porre sulla spalla, il petto e la scapola, attributo tipico della Madonna del Carmelo cui la Scuola è dedicata, come ben si osserva nella grande statua della Vergine che svetta sul campanile della vicina Chiesa dei Carmini.

La tela centrale è la scena cardine di tutto il ciclo, rappresentando il santo carmelitano Simone Stock ricevere dalla Vergine lo scapolare, oggetto salvifico simbolo della protezione mariana, secondo l’episodio che la tradizione agiografica colloca il 16 luglio 1251. Nell’imponente prospettiva in maestà, la Madonna appare stante, bellissima, il volto idealizzato perfettamente ovale, su di una coltre di nuvole scure rischiarate sullo sfondo da una calda luce crepuscolare. Sorregge il Bambino paffuto, mentre con gli occhi socchiusi conduce lo sguardo al santo inginocchiato. Uno degli angeli che la sostiene, al centro della raffigurazione, porge al santo lo scapolare, che risalta nel cielo chiaro. È una scena sublime, dove l’unico riferimento ad uno spazio reale è l’architettura su cui è ancorato il santo, umano, davanti a cui si apre l’aereo e mistico cielo della visione. Una scena dove la maestria leggera di Tiepolo si afferma grandiosa, dove l’illusione prospettica cala la visione nello spazio reale della sala, elegantemente minuta. Una tecnica che tratta quasi ironicamente lo spazio, che fa piombare il muratore nel cuore della sala, in un ambiente reale. Tiepolo, all’epoca già assai celebre, in questo caso si colloca sulla scia della grande tradizione veneziana dei teleri da soffitto, tradizione che spazia dalle imprese di Palazzo Ducale alla S. Sebastiano di Veronese, fino alla Scuola Grande di San Rocco di Tintoretto. La Scuola Grande dei Carmini conserva ancora diverse opere: le tele di Ambrogio Bon, di Giustino Menescardidi Antonio Balestra e del Padovanino nella sala dell’albergo, le dossali lignee di Giacomo Piazzetta e le scene di Antico Testamento del Menescardi nella sala dell’archivio, fino agli splendidi monocromi di Niccolò Bambini e il figlio Giovanni nella cappella, la pala di Sante Piatti per la stessa, gli stucchi di Alvise Bossi per la volta dello scalone. Così, si svela agli occhi del visitatore uno scrigno d’arte, la cui floridezza ha restituito alla Serenissima uno dei tesori del suo dorato declino.

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