di Mattia De Franceschi
Terzo Episodio della rubrica “If we were music”, dove proviamo a raccontarci tramite una breve playlist, che trovere in fondo all’articolo.
UNUS PRO OMNIBUS, OMNES PRO UNO – DIREZIONI PER UNA GEOGRAFIA DELLA CONDIVISIONE
“The two of us wrote Anti-Oedipus together. Since each of us was several,
there was already quite a crowd. Here we have made use of everything that
came within range, what was closest as well as farthest away. We have
assigned clever pseudonyms to prevent recognition. Why have we kept our
own names? Out of habit, purely out of habit.”
-Gilles Deleuze & Felix Guattari
L’autobiografia è sempre un attentato verso il sé, un fallimentare tentativo di fossilizzazione arbitrariamente delimitato, un geografico disegnare confini, qui la mia vita, hic sunt leones – nonostante abbiano il mio stesso volto. Nel suo sottrarsi al divenire è tentato suicidio, nel suo crearsi per aggregazione di scintillanti, iconiche istanze è autocelebratoria agiografia.
Eppure l’autobiografia è un necessario e continuo esercizio di tassonomia per cercare di trarre un’identità dalla totalità magmatica che ci circonda – perché noi siamo accrezioni, reti di collegamenti spinoziani dove il tutto non può fare a meno di ogni singola parte ed ogni singola parte non può fare a meno di essere un altro insieme, in una caduta frattale da me alla totalità dell’universo.
Una playlist sull’identità dovrebbe essere un’audiolibreria di Babele, una completezza di suoni in cui solo accidentalmente si potrebbe riscoprire il territorio fittizio dell’Io – ma anche questa risposta è un’inautentica resa. La caduta nella totalità si rispecchia in un’ascesa alla singolarità, e per quanto malleabile e liquido l’Io rimane una parte del mondo, e quindi essenziale al tutto.
Sono fondamentale, quindi, con necessario egoismo; che sia anche esprimibile, bisogna deciderlo sulla base della propria intenzione. La rappresentazione di quel fortuito collegarsi che ora chiamo la verità su di me è possibile come caduca fotografia di una superficie, impossibile, è stato detto, come mappatura delle sue profondità.
La soluzione sta nel ricreare il proprio concetto di playlist, di ripensare la sua strumentalità comunicativa: la suddetta complessità dell’umano e della condizione contemporanea della società, l’odierno declinarsi di ogni comunicazione in sintagmi post-ironici che nascondono, velano costitutivamente un significato inteso cui si può giungere solo attraverso un’impossibile completa condivisione con i sistemi di riferimento culturali del mittente, c’impongono di andare oltre il concetto di playlist come mera serie di canzoni.
Una comunicazione che voglia essere sincera e paritaria necessita come medium di un testo polisenso, come Dante identificava prima la Bibbia e poi la Divina Commedia: un’entità che si costituisca come stratificazione di possibili interpretabilità, momenti letterali, allegorici, morali, anagogici – che nella nostra playlist diventano momenti Kantianamente estetici dove il gusto è l’unico criterio di scelta e etico-morali quando scegliamo brani che troviamo rappresentativi nel loro testo, ma che possono anche porsi come tratti di un’allegoria, che con l’insieme delle singole scelte vuole esprimere un organismo di senso ulteriore, o parti di una narrazione, storytelling astrattista come il film personalista del New American Cinema o un concept album puramente strumentale à la Heresy, di Lustmord.
La playlist se così pensata diventa un atto di umanismo radicale e necessario, una comunicazione totale per esprimere un uomo che si trova a dover sostituire ogni certezza metafisica come garante di senso – o meglio, garante del fatto che sia ancora possibile interpretare e quindi comunicare con qualcuno. Nella playlist è inevitabilmente inserita la mia totalità, e questa garantisce al fruitore che vi siano possibilità di cogliere, nel vortice, significati, territori infinitamente rappresentati dentro questa mappa.
Esplorazione, geografia creativa quindi, deserti che l’esploratore di me-come-mi-sono-dato popolerà secondo il suo farne esperienza, hic sunt dracones dove prima la mia abitudine a me stesso poteva vedere solo leoni. Consegnarsi all’altro è un esercizio di fiducia ermeneutica, di fede nella capacità interpretativa del proprio lettore – non perché ci legga come noi leggiamo noi stessi ma perchè ci sia la possibilità di una nuova lettura. Consegnarsi all’altro è sacrificarsi ad un’immortalità virale e memetica, il suicidio dell’autore che risorge in un’infinita frammentarietà.
Con la mia playlist, ho tentato di esemplificare un tale metodo di creazione e comunicazione: ho scelto canzoni da me apprezzate, ognuna ascoltata più e più volte, ognuna con un messaggio letterale che trovo collegabile o riconducibile a delle caratteristiche che attribuisco a me stesso, ognuna espressione momentanea di un insieme più esteso, ognuna momento di una possibile narrazione. Di seguito, traccerò una possibile auto-interpretazione di questa prova di comunicazione, esplicando, nel possibile, le ragioni di queste scelte: se qualcosa risulta oscuro o non chiaro, spero il lettore non esisti a riempire le aree in ombra – ed anche a deformare quelle in luce.
Si comincia con The Michael Jordan of Drunk Driving, microballad acustica che, nel suo minimalismo la cui genealogia si snoda tra le sperimentazioni degli S. O. D. e la paradossale tradizione antifolk statunitense, si configura come introduzione facilmente esperibile ad una narrazione lineare per aura e contenuti – una preconcezione che viene oltrepassata dal potenziale racchiuso nella canzone, sia un’introduzione che una citazione nella sua posizione, che può essere interpretata differentemente a seconda delle coordinate identitarie di colui che l’ascolta, che è già originariamente una metafora lirica, che quindi cerca di esemplificare allegoricamente già in principio l’intera costruzione teoretica di questa playlist-esempio.
Si ascende con Perfect Skies nel remix aurorale di suicideyear in quello che pare l’inizio formale della serie di canzoni: un brano che cerca di porsi come noumeno, ultima frontiera sensibile di un non detto, una sensazione solamente suggerita e circondata di significato, mai veramente raggiunta perchè nell’atto stesso del darvi un nome la sua qualità intrinseca viene persa. La cosa in sé soggetto di questa particolare esplorazione della frontiera è però completamente opinabile, uno spazio speculare in cui l’ascoltatore deve inserire, consciamente o no, una deformazione di sé stesso – un atto speculare al momento di creazione della canzone stessa, essendo essa un remix.
Si osserva dall’alto con Hurt, simulacro scintillante e schizoide nato attraverso l’accrezione di significanti de- e re-territorializzati, atto creativo evidente soprattutto nel video musicale: videogame disgregati dai glitch, la mucillaggine ultima del capitalismo globale indossata come accessorio, colori strappati al loro mileu d’inizio anni ’80 – il tutto coadiuvato dai beat/sample postmoderni di suicideyear, la cui presenza in due canzoni contigue è una promessa, una possibilità di sotto-narrazione che non avrà seguito. Osservare il mondo significa farsi contagiare, produrre diventa, ostentatamente, ri-utilizzare.
Si attende con Horse Steppin’, una numinosa eufonia di strati e sample esperita in una semplice, ineffabile sensazione, un mood inattuale – che nella sua estensione diventa il momento mediano della narrazione, il grande plateau cui si ascende attraverso la prima parte della playlist e da cui ci si muoverà solo con le ultime due canzoni. Ma è anche opera muta, coestensiva ad un significato cui solo io posso accedere, dato dalla connessione delle mie esperienze, un sistema inaccessibile che vuole in sé significare tutto ciò che nella condivisione non può essere comunicato.
Si precipita con Untitled, il passo nel vuoto nichilista da cui muove ogni successiva catalievitazione che desideri produrre valori. Si bruciano le proprie librerie, si dà fuoco alla tradizione ribelle che ci ha accompagnato ed ora imprigionato, si ricrea il punk con l’eliminazione dei collegamenti alla sua storia ed in questo si ritrova la sua iconoclastia – il percorso narrativo della playlist pare anche avviarsi verso una conclusione quasi metafisica, rumorosamente antiformalista.