Beirut for dummies from one of themselves – Lesson #0

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LEZIONE #0: Comprati una mappa

“Non ho neanche guardato l’hostess con il salvagente” è il mio primo pensiero. “Fa’ che in acqua non ci siano le meduse” il secondo.  Peggio di un incidente aereo in mare, c’è solo un incidente aereo in acque infestate da meduse.

Ore 20 circa, sono su un aereo partito tre ore prima da Roma, direzione Beirut. La meraviglia con cui fino a tre minuti fa guardavo le strade illuminate della capitale è sparita. L’unica cosa sotto – ma non così tanto – le ali del Boeing è una massa scura. Acqua. Palesemente acqua.

Quella di partire senza sapere nulla della meta di arrivo tutto ad un tratto non mi sembra più un’idea così geniale.

Roba che se veramente ci schiantiamo nel Mediterraneo – è il Mediterraneo, vero? – e miracolosamente non mi spappolo nell’impatto, miracolosamente riesco a capire in che modo si indossi il salvagente, miracolosamente non ci sono le meduse e miracolosamente  il telefono vecchio di sei anni si salva, finisce che muoio lo stesso perché non so neanche dire alla guardia costiera dove sono. In che lingua glielo dico, poi?

Eppure i libanesi di fianco a me sembrano tranquilli. “Hanno fatto la guerra civile, per questo sono calmi” è il terzo pensiero. “Quando pensi sei veramente politicamente scorretta” il quarto.

Il parrucchiere che a Roma si è sincerato che andassi a vivere in un quartiere cristiano – on n’est pas des extremistes – mi guarda fiducioso qualche fila più in là. Il vicino che per tutto il volo ha colonizzato il mio bracciolo non ha nemmeno allacciato la cintura. Tre posti più a destra una mamma parla con suo figlio, e da quel che riesco ad origliare non mi sembrano parole di addio.

Insomma, prima lezione che avrei dovuto imparare: l’aeroporto di Beirut dà sul mare. È una lunga pista che termina nell’acqua. A fianco, visibilissime di notte, ci sono le montagne su cui Beirut è arroccata.

Sopravvissuta e contenta, mentre sono in fila per il controllo passaporti attacco bottone. L’entusiasmo per essere ancora viva ha però vita breve: dopo nove mesi di italiano, i rimasugli di arabo sopravvissuti ad una primavera di silenzio e ad un’estate di bagordi non sono sufficienti ad intavolare una conversazione. O meglio, lo sarebbero se fossi tra Teletubbies o bambini sotto i due anni.

Esordisco con un “Mi sono appena laureata in arabo!” di pronuncia incerta, il primo interlocutore ghigna e passa all’inglese con la nonchalance con cui un pilota mette la 7a. Non demordo e riprovo con il secondo. Parto però più umile. Questa volta “Studio arabo all’università!”“Primo anno?” mi chiede mentre una parte di me muore e l’altra vuole distruggere il libretto elettronico. Uso la tattica di mia nonna e mi ringiovanisco: “No, da due.” Silenzio. “Ah! Migliorerai”. Continuo così per un po’. Dopo 40 minuti, quando arrivo dal tassista: “Sono solo una turista!” – “Ah e parli arabo così bene! Brava!” –“Eh sì, ho studiato su internet.”

Eh sì, ho studiato su internet.

di Camilla Cimatti

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