IN PRIMA LINEA
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Tommaso Labranca, come si può dedurre dai suoi scritti e dalla sua biografia, è stato capace di un grado di lucidità che pochi attorno a lui condividevano, e che ancora in meno erano disposti ad applicare ai fenomeni mediatici e culturali di massa. Non c’è da sorprendersi quindi se dalla sua prosa emerge una certa amarezza, tipica di chi si trova a seguire il proprio indirizzo di ricerca da solo. Per completare uno schizzo antropologico basta aggiungere che viveva a Milano per scelta, il che è sufficiente a descrivere un certo tipo umano incline all’automortificazione. Si tratta quindi di un autore atipico e difficile da classificare, una sorta di fenomenologo dei media, o un antropologo che abbia scelto come campo di ricerca la società dello spettacolo italiana. Oltre a questo, va ricordato che non si tratta di un autore accademico: ha pur sempre intitolato il proprio primo libro Andy Warhol era un coatto. Negli anni Novanta, non c’è da sorprendersi che in pochi abbiano preso sul serio un titolo simile. Forse questi pochi tratti bastano a farsi un’idea di cosa si trovi nei suoi libri e nei suoi articoli: originalità e rigore, lucidità e amarezza, una certa ironia. A questo si aggiunge un ultimo tratto fondamentale che fa da orizzonte di senso della sua produzione: la prospettiva di Labranca non è mai stata quella di un osservatore esterno rispetto al sistema inerziale dei media, anzi egli rifiuta esplicitamente quello che chiama il pregiudizio estetico. La distinzione tra bello e brutto, alto e basso, culturale e sottoculturale non gli appartiene, soprattutto se si tratta di distinzioni ereditate da altri, ovvero se questi schemi vengono usati per delegare ad altri la formazione del proprio gusto.

La lucidità della prosa di Labranca potrebbe essere paragonata all’attenzione perfetta di un monaco stilita, uno di quegli asceti urbani che nella Siria del tardo impero romano salivano su una colonna per non scenderne più, e vivevano nel mondo pur non essendo del mondo. Labranca è uno stilita fuggiasco, che dalla sua colonna è caduto non si sa bene come (e penso non se lo spiegasse neanche lui) ma che ha conservato la prospettiva di un tempo sul mondo terreno. Se è paradossale che questi monaci riuscissero a fare la vita da eremiti nel bel mezzo delle città, Labranca aggiunge un ulteriore livello di complessità. Per incidente della vita o forse per difetto di umiltà, gli è riuscita un’impresa che gli stiliti di un tempo non hanno osato: pur scendendo dall’alta colonna, è rimasto nel modo eppure fuori da esso, impegnato nelle triviali questioni della vita ordinaria, di Milano, di un’Italia che ha sempre visto da dentro pur conoscendone tutto ciò che sta, geograficamente e culturalmente, fuori, in basso, ai margini. (abbiamo due idee molto diverse di periferia…).
Io me lo figuro severissimo e magnifico.

Labranca a Milano non ci si è mai dovuto trasferire perché ci è nato, e come molti milanesi è nato fuori, in quella provincia che è il supplemento aurorale necessario del centro (città). Labranca non viene dalla Milano del Duomo e del quadrilatero, è un milanese vero perché viene da Rogoredo. In centro non ci si è mai dovuto trasferire perché non c’era niente, laggiù, che gli mancasse. Inoltre non se lo poteva permettere e anche se avesse potuto sarebbe stato, comme on dit, un faux pas.
Labranca non scherza, Labranca è un pezzo da novanta, Labranca è l’autore della principale biografia dell’usignolo di Cavriago, non so se mi spiego. Ed eccoci in un passo solo da Rogoredo a Sanremo, sotto il segno di Orietta. Anima Mia, la trasmissione tv diretta da Baglioni insieme a Fazio su Rai 2, fu il momento di massima visibilità mediatica di Labranca. Andò in onda nel 1997, lo stesso anno del Sanremo dei Jalisse. Proprio nel ‘97 Paola&Chiara erano all’Ariston, e forse nell’anno del loro ritorno è opportuno pensare al festivàl in termini labranchiani. (Scusa, so che è soltanto un’altra scusa…)
L’idea per cui Labranca è più noto è certamente il trash, una categoria estetica di cui propone un significato originale. Trash non è sinonimo né di stupido né di ignorante, anche se può essere entrambe le cose. Un prodotto culturale è trash non solo perché è scadente, piuttosto è trash perché manca l’obiettivo che si pone, è una stonata imitazione che non riesce ad emulare pienamente ciò a cui vorrebbe assomigliare (in due parole: serata cover). La poetica del trash è una dolorosa teoria del fallimento, insostenibile a guardarsi e in grado di suscitare quella sensazione perturbante e uncanny, il cringe.
Formula del trash: Il trash è lo scarto fra intenzione e risultato, dice Labranca. k*S – R = T, dove il trash (T) è uguale alla differenza tra risultato (R) e scopo (il modello da emulare S) moltiplicato per una variabile (k), che equivale a incapacità, penuria di mezzi, scelta infelice del momento di esecuzione, ecc.
Il camp e il kitsch da soli non bastano a capire Sanremo, per farlo abbiamo bisogno del trash. Il kitsch indica quell’uso improprio di materiali della tradizione in una società atomizzata, in cui gli oggetti di un tempo non hanno più il senso originario, e si trovano goffamente fuori posto (i vasi di fiori sul palco, diciamocelo, sono un po’ kitsch). Il camp è quell’uso deliberato del kitsch canonizzato da Susan Sontag, e popolarizzato da un intero Met Gala. Il trash è qualcos’altro ancora, forse un kitsch visto da chi ama i presentatori vestiti di paillettes, la formula giornalistica: kermesse della musica italiana, le decorazioni floreali (Grazie dei fior…)
Per continuare con la diegesi labranchiana del fenomeno Sanremo, si deve notare che negli ultimi anni il festival è passato dal trash al barocco brianzolo. Se il trash non può essere completamente ridotto al kitsch, lo stesso vale per camp e barocco brianzolo, che non è semplicemente una forma autoconsapevole di trash. Il barocco costituisce piuttosto una periferia che si eleva a centro, uno stile che non desidera essere altro da sé e allora imita solamente se stesso, in un loop autoreferenziale da capogiro, pura forma (perché Sanremo è Sanremo). Barocco brianzolo, è necessario specificarlo ancora più che con trash, non è un termine dispregiativo e non implica un giudizio di valore. Che piaccia o meno, la piramide del Louvre è barocco brianzolo (chissà se Mitterand ne era consapevole).

Al festival da 58% di share dello scorso anno, del fantasanremo, fra luci e ombre, contestazioni e problemi di audio, non si chiede di essere altro rispetto a sé stesso, anzi si cerca di rendere il festival ancora più festival, senza alcun freno inibitore.
Non sarebbe la prima trasformazione stilistica del format sanremese, basti pensare al pre- e post- Tenco, o ancora al cambiamento del ruolo del conduttore da officiante imparziale a narratore di un’epopea nazionale, fino alla difficile ma fruttuosa coesistenza con i talent musicali sulle stesse frequenze, e davanti ad un pubblico che ora si approccia alla trasmissione musicale con un palato avvezzo ad un tocco di reality. Un Sanremo che oggi si guarda tanto in tv quanto in streaming su RaiPlay, magari dall’estero per sentirsi un po’ a casa.
Reduci del bombardamento mediatico delle ultime settimane, ancora rintronati dopo un brusco risveglio, quasi ci sorprendiamo che nel frattempo il mondo sia andato avanti. Ma come, il discorso dell’ospite X, alla serata Y, non è bastato a mettere fine a guerre e disuguaglianze economiche? Lucido e impietoso, eppure immerso quanto noi in questo impero delle luci eternamente in declino, Labranca è un antidoto prezioso al torpore di questi giorni, e ci permette di non sentirci troppo in colpa se abbiamo deciso collettivamente di tuffarci nel mondo di Sanremo. Forse, può persino aiutarci ad uscirne un po’ più consapevoli di noi stessi, senza troppi rimorsi.
di Francesco Pigato
Foto di Paolo Monti (Servizio Fotografico, Milano 1956): “Ansicht von unten”, “Der Turm im Bau, vom Dach des Mailander Doms aus gesehen”, “Gerüste und Rohbau”.