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Usciti dal Rijksmuseum, attraverso per intero la piazza Museumplein: davanti a me si erge Villa Alsberg, che ospita il Moco Museum. È un museo di arte contemporanea, anzi, più precisamente di street art. Ci sono tante opere che suscitano riflessioni diverse, che sono lì per mettere alla prova il visitatore, che vogliono porre domande o forse talvolta anche solo far tuonare qualche punto esclamativo.
In particolare, al piano interrato si trova ora una mostra d’arte immersiva digitale, composta da più stanze, creata da Studio Irma per “mostrare le connessioni senza fine per rilevare come potrebbe essere il futuro”. S’intitola Reflecting Forward. Ogni stanza è un gioco di colori, luci, ma soprattutto specchi: riflessi, sagome deformate, sguardi ripetuti all’infinito. Senza mentire potrei descrivere queste stanze sia buie sia luminose, perché erano immerse nella penombra ma allo stesso tempo erano piene di neon colorati che brillavano pure in quanto riflessi.
All’inizio sono entrata seguendo un po’ gli altri visitatori, senza sapere bene quale fosse il significato dell’installazione, né perché fosse stata ideata e progettata; mi sono solo lasciata avvolgere dalle sensazioni e dai pensieri che mi ha suscitato entrare in quelle stanze. Non sono certa che mi abbiano permesso di guardare avanti, ma per certo ho guardato attraverso, ho guardato riflesso.
Ognuno prende dall’arte quello che ha bisogno di prendere, non quello che l’arte può dare – o comunque questo è quello che credo.
Mi sono scattata una fotografia (in un moto di vanità e autoesaltazione, autoriflessione, autoimitazione, immagino): sono io con la mia giacca fradicia (ovviamente diluviava), i capelli bagnati dalla pioggia olandese, i pantaloni zuppi a chiazze in modo da sembrare quasi di colori diversi. E poi ci sono altre decine di me stessa, di giacche, capelli, pantaloni. Siamo una dietro l’altra, ma anche una davanti all’altra, siamo sopra e siamo sotto, in modo così infinito da chiedersi chi sia davvero sopra e chi veramente sotto o se si sia solo in un mondo capovolto. Ci sono così tanti riflessi che da certe angolazioni si potrebbe perdere di vista la vera me e confonderla con una delle altre immagini. Trovo curioso che l’illusione sia stata più forte nella realtà che in quella fermata nella fotografia, dove si capisce benissimo quale sia la Caterina reale e quali quelle riflesse.
Mentre guardavo mi domandavo se ogni riflesso alla fin fine ritraesse la stessa persona, cioè me: se ogni riflesso è comunque reale, allora c’è davvero un’unica me o ce ne sono decine? Le “me” riflesse sono davvero meno reali dell’originale oppure esistono allo stesso modo? Mi fermo in questi pensieri chiedendomi chi sono in relazione alle altre persone. In quante “me” posso affermare con onestà di essere sempre me stessa? Mostriamo alle persone solo alcuni riflessi di noi, oppure tutti, oppure i riflessi che mostriamo finiscono per essere i veri “noi” agli occhi degli altri? Questi riflessi, le varie “me” che gli altri conoscono singolarmente, in fondo sono sempre io; anzi, forse proprio perché gli altri le conoscono, esse esistono in modo più tangibile di quelle “me” che non sono presentate all’esterno, quelle “me” che, proprio perché più nascoste e interiori, dovrebbero essere le “me” più vere e profonde. Ma esistono queste “me” se non ne esistono prove? Mi viene da chiedermi, se nessuno mi conosce e ha la prova della mia esistenza, io esisto? Quanto abbiamo bisogno degli altri per legittimare la nostra esistenza?
Mi è venuto in mente il Minotauro di Friedrich Dürrenmatt (o meglio, il frammento, il riflesso che di quest’opera mi è rimasto). Sicuramente lui si poneva la domanda “chi sono?”. Anzi, prima di chiedersela, lui nemmeno sapeva di porsela. Guardava i molteplici se stesso credendo fossero altri, estranei a lui. Non è stato in grado di riconoscersi se non all’ultimo. Quanto siamo in grado di riconoscere noi stessi? Quante volte ci sembra di guardarci dal di fuori, di estraniarci da noi? Il Minotauro cercava disperatamente di entrare in contatto con questi “altri”, cercava di creare una relazione con loro eppure sempre si sfuggivano. Peggio, i vari Minotauri sembravano prenderlo in giro, collidere anziché collimare. Quante volte ci perdiamo nel capire chi siamo, e siamo in conflitto con noi stessi? Che fatica lancinante e dilaniante è scendere nelle profondità di noi stessi e riflettere sulla nostra natura, accettarci, comprenderci. E soprattutto, quanta paura ci fa riconoscere noi stessi? Chissà, forse in realtà Narciso si è buttato nel lago per essersi alla fine riconosciuto.
Possiamo immaginare, quindi, che il nostro io indivisibile sia, in realtà, molti ‘io’; ma quanti ‘io’ ci sono in una sola persona? E questi ‘io’ come convivono?
Ho di recente terminato la lettura di Piranesi di Susanna Clark. Si tratta di un romanzo che presenta livelli di lettura diversi e la mia opinione complessiva su di esso è discordante e incoerente: ho avuto un momento di stordimento quando l’ho terminato. In ogni caso, per quanto riguarda il nostro discorso, ci sono alcuni dettagli e riflessioni che mi hanno colpita. Per esempio, il protagonista vive in un perfetto mondo delle idee, che è irreale eppure esistente (insomma, lui ci vive dentro) e si dispiega a partire da una stanza, guarda caso, piena di statue di minotauri. La pazzia deriva dal trascorrere troppo tempo in questo mondo, che io interpreto come la metafora della mente – come a dire che a rinchiudersi troppo nei propri pensieri si finisce per perdere il contatto con la realtà. Il protagonista però non perde la ragione, per qualche misteriosa sorte o capacità, e, anzi, rimane sempre molto lucido. Allo stesso tempo, però, si estranea da tutte le personalità che conosce, tutte le persone che hanno abitato il suo corpo, e che convivono in lui ma che lui non riconosce come se stesso: le giudica, le commenta, come altri da sé che per qualche casualità si ritrovano a vivere rintanati dentro di lui. Non riesce mai davvero a definire se stesso: è la metafora del lettore che si immedesima in cento personaggi diversi pur essendo consapevole di essere altro da loro, ma anche dell’essere umano stesso perdutamente alla ricerca di sé e della risposta alla domanda di senso.
E dire che ci stavamo solo facendo una foto allo specchio.