La veglia notturna di un giovane iracheno

Tempo di lettura: 6 minuti

C’è un dormitorio universitario che si trova in una zona periferica a otto chilometri dal centro di Yerevan, ed è la mia casa. Condivido la camera con W. M., studente di farmacia venticinquenne: il primo cittadino della Repubblica d’Iraq, fieramente curdo, che abbia incontrato nella mia vita. Io, per non essere da meno, sono il primo italiano, il primo cittadino europeo, che lui abbia mai incontrato. Mi ripete spesso che sono fortunato ad essere italiano ed io credo che sia bello che qualcuno me lo dica ogni tanto. Chiacchieriamo spesso assieme e un po’ di tempo fa ho deciso che alcune cose dette da lui valgono la pena di essere raccontate. Il motivo principale è una consapevolezza che solo i viaggi riescono a darmi, e che pian piano si sta radicando dentro di me: esistono tanti mondi che si svegliano con il nostro, e che dal nostro sono molto diversi. Sentire questo significa essere in comunione con l’umanità, percepire le diversità; una cosa che io ritengo molto preziosa. E raccontare le diversità significa esserne coscienti, rispettarle. Prima di proseguire, però, devo dire che per quanto io provi stima e fiducia nei confronti di W. M., mi sento di avvertire i lettori che quanto scritto di seguito non sarà sostenuto da alcuna prova inedita. Questo testo, infatti, non vuole apparire come un’inchiesta, ma come un fedele riportare di ciò che ho appreso dalle parole del mio nuovo amico.

W. conosce, oltre a me e spesso solo virtualmente, altre persone che vivono in Europa, ma sono curde. Mi ha raccontato che alcune di loro le ha scovate su Facebook, qualche anno fa, mentre racimolava informazioni per raggiungere l’Occidente. Esiste infatti una rete di solidarietà tra i curdi: chi ci riesce, ad andare in Europa, aiuta volentieri gli altri a fare altrettanto o, perlomeno, a provarci, dispensando consigli, contatti ed informazioni utili. Tutto questo perché ottenere un visto per l’Unione Europea e, in generale, uscire dai confini iracheni, è una specie di inferno. Me ne sono reso conto quando un giorno gli ho chiesto se volesse accompagnarmi a Tbilisi, capitale della Georgia, durante un fine settimana. Quella che per me sarebbe stata una piacevole gita, per lui non sarebbe stato proprio nulla: solo centocinquanta chilometri da Yerevan, ma anche una frontiera che non si può attraversare.

Per andare in Italia, per esempio, c’è da fronteggiare un’infinita trafila burocratica, per cui si devono presentare diversi documenti: certificati, estratti conto recenti, prove di alloggio nel paese ospitante, polizza sanitaria ed altro. Lo abbiamo scoperto insieme controllando sul sito del Consolato d’Italia ad Erbil, città a pochi chilometri dal villaggio dove la famiglia di W. vive e capoluogo del Kurdistan iracheno (nell’Iraq settentrionale), che rilascia visti ai residenti nella Regione Autonoma del Kurdistan.

L’area Schengen è un tanto ambito castello da conquistare per W. Ma non esistono vie semplici per raggiungerlo. Mi ha raccontato che ci sono almeno tre modi diversi per raggiungere l’Europa, in maniera non consentita dalla legge e, il più delle volte, rischiando la vita. Le persone agiate si procurano un passaporto falso di un altro paese, ad esempio della Germania, richiedendolo a determinate persone che hanno contatti all’interno degli uffici governativi: il costo è di centomila dollari americani. Questo è il metodo più sicuro, poiché, nel caso in cui si venisse scovati dalle forze dell’ordine, non si verrebbe puniti ma, al massimo, rimpatriati. È il metodo più sicuro per un motivo semplice: in ogni caso, non si rischia la vita. Gli altri metodi sono più rischiosi. Si tratta principalmente di riuscire a raggiungere la Grecia, primo avamposto dell’area Schengen, viaggiando dal Medio Oriente verso nord per poi proseguire da lì. Ci sono delle persone, chiamate in curdo qachax chi (una sorta di guide), che curano tutti gli spostamenti: trafficanti, immagino. I due modi per raggiungere la Grecia differiscono nella modalità di viaggio: via terra o via mare. Via terra, vere e proprie carovane clandestine di camminatori attraversano folte vegetazioni durante la notte e si fermano per il riposo durante il giorno e, così facendo, riescono ad attraversare frontiere altrimenti invalicabili. Queste inumane traversate durano anche molti giorni, ma esistono anche dei viaggi, asfissianti, su strada, che si svolgono all’interno di doppifondi situati sotto i rimorchi di camion che raggiungono l’Europa. Su questi mezzi si prova a raggiungere l’Inghilterra, attraversando la Manica (via mare, quindi) a bordo di traghetti, partendo nei pressi di Calais, in Francia. Si prova anche ripetutamente, se ripetutamente si venisse scoperti. Un po’ come succede nei pressi della città turca di Izmir (l’antica Smirne), dove vivono molti curdi e da cui salpano piccole imbarcazioni e gommoni, sovraffollati, intenzionati ad attraversare il mare Egeo e a raggiungere le coste elleniche. I naviganti vengono sovente illusi sull’effettiva durata del viaggio che spesso, oltre a durare diversi giorni, si trasforma in un vero e proprio corteo di morte. Una testimonianza di tale sciagura è la fotografia, che ha fatto il giro del mondo, del corpicino di Alan Kurdi, bambino curdo siriano di soli tre anni, portato a riva dalla corrente.

Io non stento a credere a quanto W. mi racconta a proposito di questi viaggi. Quando parla mi viene spesso in mente l’odissea di Enaiatollah Akbari, ragazzo nato in Afghanistan ed arrivato quasi per miracolo in Italia, la cui storia è raccontata da Fabio Geda in Nel mare ci sono i coccodrilli. Enaiatollah è arrivato davvero in Italia, e come lui tanti altri. Ma, diversamente da lui, chissà quanti altri, da est come da sud, ci hanno provato e hanno fallito, perdendo ciò che possedevano di più prezioso e che quasi sempre consapevolmente mettevano a rischio: la vita. Quando chiedo a W. se in Italia, o in Germania, lui ci andrà mai, mi risponde che mai dire mai, il futuro sarà una sorpresa. E non può che essere così: in un mondo che non possiede alcuna stabilità, ogni giorno è una sorpresa. 

Nel 2014 l’ISIS ha assediato la città di Mosul, a circa ottanta chilometri da Erbil. W. mi racconta che, durante l’assedio, se ne stava al fiume Kab, detto Grande Fiume, affluente del Tigri, a mangiare qualche cosa con diversi amici e cugini. Una volta rientrato nel paesino dove vive la sua famiglia, ha ritrovato la casa invasa da uomini, donne e bambini: famiglie intere scappate da Mosul. Tutti dormivano sul pavimento nelle varie stanze. Quella stessa sera la famiglia di W. ha ospitato più di un centinaio di fuggiaschi, amici del padre. E lui non è riuscito a trovare nemmeno un angolo dove potersi coricare per riposare. Mi racconta che quella notte non ha dormito, è salito sul tetto della casa ed ha atteso il mattino. 

Credo che l’immagine della veglia notturna sia molto adeguata a descrivere W. ed un’intera generazione di giovani come lui che, nonostante una spessa coltre di oscurità composta da burocrazia e irrequietezza si stagli di fronte al loro futuro, non rinunciano a sognare in grande. E con questo movente tentano anche imprese folli, spinti dalla volontà esasperata di vedere realizzate le loro grandi ambizioni. È la stessa volontà di chi, stremato, attende per una notte intera le prime luci dell’alba.

Di Daniele Frison

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