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Il primo film non in lingua inglese a vincere la statuetta come Miglior Film è sudcoreano.
Parasite è un film sudcoreano, recitato in coreano da attori coreani. Ancora prima di vederlo, ho sperato con tutto il cuore che sbancasse gli Oscar, in particolare nella categoria di Miglior Film, che si può considerare la più prestigiosa. Quando mi sono svegliata la mattina dopo la premiazione e ho scoperto che il film aveva vinto in tutte le quattro categorie per cui era nominato, mi sono sentita felicissima. La mia gioia era per un film che non ho ancora visto e per un regista e un cast che non conoscevo. E tutti dovremmo sentirci così, indipendentemente da quanto interesse proviamo per il cinema, per questo film in particolare o per altri film nominati che hanno perso contro Parasite. È la prima volta, infatti, che una pellicola recitata in una lingua diversa dall’inglese vince nella categoria di miglior film, e non stiamo nemmeno parlando di un film europeo: è nientemeno che un film sudcoreano. Può sembrare una notizia poco rilevante, ma un’esperienza che ho vissuto recentemente mi ha fatto capire l’importanza di rendere più inclusiva l’industria dell’intrattenimento e questa premiazione mi ha dato un po’ di speranza che, forse, la fine del monopolio hollywoodiano sui prodotti cinematografici – e anche del piccolo schermo – che consumiamo regolarmente non sia un sogno impossibile. In particolare, mi riferisco all’esperienza di studio e lavoro che mi ha portata a passare due terzi del 2019 in Giappone.
Premettendo che non si è trattato della mia prima volta in Giappone e che, essendo io una studentessa proprio di giapponese, partivo con una conoscenza del paese già piuttosto superiore alla media, non posso negare che trovarmi lì come abitante e non come turista sia stata un’esperienza totalmente diversa, addirittura destabilizzante, per certi versi. Ogni giorno dovevo fare i conti con le piccole “stranezze” del paese e dei suoi abitanti, con la “stranezza” di vedermi straniera tra 38 milioni di giapponesi che vivevano nella mia stessa città, con la “stranezza” di sentirmi guardata e di sapere che la mia condizione di “persona di fuori” (traduzione letterale della parola straniero in giapponese) fosse ben evidente a tutti. Inizialmente cercavo di ignorare questa sensazione, ma credo che nessuna persona senza una storia di migrazione alle spalle sia mai davvero pronta a sentirsi improvvisamente la persona di fuori in una città che, anche se solo per un periodo, considera casa propria. Tendevo a definire strano tutto ciò che non capivo, o che non accettavo, come una sorta di difesa personale, per dirmi che la mancanza di comprensione non era un mio limite, bensì colpa della stranezza di questo popolo.
Col tempo, però, vivere immersa in questa cultura mi ha permesso di iniziare a capirla di più, o per lo meno ad accettare che ci fossero cose che non avrei mai capito, ma che non per questo avevo il diritto di definire strane: questi usi e costumi erano pur sempre la normalità per 120 milioni di persone! Io non ero altro che una persona di fuori, arrivata con il proprio bagaglio culturale e forse non davvero pronta ad accettare che lì, in quel momento, la strana ero io. Però, vivere circondata da giapponesi, sentirli parlare, esprimersi e vederli muoversi, vivere, ha aiutato il mio inconscio ad abituarsi, pian piano e senza rendersene conto, a tutte le differenze che all’inizio trovavo bizzarre, e che, a un punto della mia esperienza che non saprei identificare precisamente, sono diventate normali anche ai miei occhi. Un giorno mi sono resa conto che vedere solo visi dai tratti asiatici fosse assolutamente normale per me, e anzi, ai miei occhi risaltavano subito i visi occidentali che saltuariamente incontravo, e alcuni modi di esprimersi che trovavo buffi sono invece entrati a far parte del mio vocabolario. Grazie a questo cambiamento nel mio modo di vedere il paese e i suoi abitanti, ho notato che riuscivo a empatizzare con loro molto di più: gli sconosciuti sul treno o nelle strade affollate non mi sembravano più robot comandati a distanza, li osservavo e mi sentivo più vicina, mi sentivo incuriosita da cosa stessero pensando o provando. Ho capito che il primo passo per smettere di vedere le persone appartenenti ad altre culture come “strane” è accettare che la loro stranezza sia, invece, una normalità diversa dalla nostra. Non è necessario comprendere appieno una cultura, perché per questo servono molto tempo e dedizione, ma normalizzare ai nostri occhi ciò che non comprendiamo e non vediamo quotidianamente è un passaggio fondamentale per riuscire davvero a vivere senza pregiudizi.
Giunta a questa realizzazione, ho provato a domandarmi quali altri mezzi fossero a nostra disposizione per normalizzare varie culture ai nostri occhi, visto che è impossibile passare qualche mese in tutti i paesi del mondo, e la risposta più ovvia era il consumo di prodotti culturali, come libri, film e serie tv, riguardanti paesi per noi incomprensibili e lontani. Ho allora provato a calcolare quanti dei libri, film e serie tv di cui avevo fruito recentemente fossero opera di autori non italiani, americani o britannici. La risposta è stata deludente. Se poi avessi escluso anche tutte le produzioni europee, il numero si sarebbe ristretto ulteriormente.
Provate a fare lo stesso calcolo e, in base al risultato, riflettete su quanto influenzati siamo da ciò che vediamo: alcuni usi americani, ad esempio, sono assolutamente inesistenti in Europa, ma vedendoli così frequentemente in televisione non ci sorprendono più, ci sembrano “normali”. Possiamo dire lo stesso di usi cinesi, indiani, sudafricani? Come possiamo definirci una società cosmopolita, se tutto ciò che davvero conosciamo e che riteniamo degno di attenzione è ciò che somiglia alla nostra percezione di normalità?
Tornando quindi a Parasite: la vittoria di questo film è storica non solo perché nessun film di lingua non inglese aveva mai vinto prima, ma anche e soprattutto perché, per una volta, la premiazione cinematografica più famosa al mondo ha riconosciuto che, tra le produzioni del 2019, quelle hollywoodiane erano qualitativamente inferiori rispetto a una produzione sudcoreana. Per una volta, il mondo intero è stato forzato a prestare attenzione a un’industria culturale che finora aveva goduto di ben poca rilevanza, nonché ad ascoltare parole in coreano aspettando la traduzione dell’interprete e constatando che questi “strani” suoni abbiano un significato, e le persone che li pronunciano abbiano sentimenti e passioni, proprio come noi, nonostante il loro modo di esprimerli possa sembrarci incomprensibile. Per una volta, non è stato solo il vincitore della categoria di Miglior Film straniero a necessitare di un interprete.
Non so che piega prenderanno prossimamente questi premi, e certamente non sarà questa vittoria, per quanto storica, a far cambiare direzione all’Academy; sicuramente Hollywood continuerà a monopolizzare gran parte della produzione culturale mondiale, ma se questa notizia riuscirà a fare il giro del mondo – e sembra ci stia riuscendo–, forse più persone saranno incuriosite dalla Corea del Sud, forse più persone inizieranno a fruire di produzioni straniere e capiranno che in realtà sono normali anch’esse, che si può essere stranieri solo rispetto a una normalità, così come la nostra normalità sarà sempre straniera rispetto a quella di qualcun altro. E forse riusciremo a diventare davvero cosmopoliti, nel senso di conoscitori di vari aspetti del mondo, anche i più lontani da noi. E forse rimarremo incapaci di comprenderli davvero, ma smetteremo di liquidarli come qualcosa di bizzarro e, piuttosto, capiremo che anche questa è normalità.
di Chiara Bergonzini