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Il giorno di Martedì Grasso, mancato apice del Carnevale veneziano di quest’anno, le persone che la sera giravano per Venezia si sono trovate davanti una scena molto particolare: un corteo di giovani che, vestiti da monaci penitenti o da medici della peste, camminavano in processione per le calli della città intonando canti di liberazione dal Covid-19. Può sembrare una semplice goliardata, volta ad affrontare con ironia questo clima di tensione, ma in realtà si potrebbe anche interpretare come una sorta di ricostruzione storica. Nel Settecento infatti, durante il Carnevale, i medici della città camminavano tra la folla in festa con gli antichi abiti dei medici della peste medievali, per ricordare il terribile morbo (allora già scomparso insieme ai topi che ne erano portatori) che tante vittime aveva mietuto nelle epoche passate e che aveva avuto un importantissimo ruolo nella storia della Serenissima. Molte sono infatti le realtà che alla peste rimandano: l’enorme Basilica della Salute, costruita nel ‘600 come voto a Maria, la chiesa di San Sebastiano, protettore dal morbo, i due lazzaretti, dove per la prima volta venne sperimentata la quarantena (termine veneziano poi diffusosi in tutto il mondo), e il complesso di San Rocco.
Proprio dietro alla chiesa dei Frari, in una zona un po’ nascosta e un tempo adibita alle manifatture dei tintori, si trovano la chiesa e la scuola grande dedicate a questo santo. Questi era un pellegrino francese del 1300 che sarebbe giunto in Italia per assistere coloro che erano stati colpiti dal morbo: ammalatosi, si ritirò in una foresta dove Dio gli inviò ogni giorno ciò di cui nutrirsi per mezzo di un cane; guarì grazie all’intervento divino, per mezzo di un angelo, ma perse la vita, stando alla leggenda, nella prigione di Angera, dove era stato rinchiuso perché sospettato di spionaggio. Dalla sua leggendaria vicenda provengono gli attributi iconografici che lo caratterizzano nella sua rappresentazione tradizionale e nei dipinti che decorano la sede monumentale della confraternita, ovvero la mantella (ornata di una conchiglia) e il bastone da pellegrino, un cane e un bubbone della peste sulla gobba che egli solitamente indica. Questo suo carattere benefico e “popolano” lo ha reso davvero famoso, soprattutto nel Nord Italia, e molto venerato come protettore non solo dalla peste ma anche dei pellegrini e degli animali: fino a non molti anni fa davanti alle chiese parrocchiali si teneva, il giorno della sua memoria liturgica (16 agosto), la benedizione degli animali da lavoro e degli attrezzi agricoli; per capire meglio la sua importanza si pensi che recentemente una parete esterna del palazzetto dello sport di Dolo, cittadina della Riviera del Brenta che ha questo santo come patrono, è stata decorata con un murales che ritrae San Rocco, il cagnolino che sempre lo accompagna e l’angelo nell’atto di curarlo.

A questo santo è dunque dedicato il complesso veneziano, iniziato a costruire dal XV secolo e subito distintosi per la monumentalità delle costruzioni, per la bellezza delle decorazioni e per la ricchezza di coloro che della confraternita entravano a far parte: non a caso il Doge prendeva parte alla festa del patrono della confraternita, che in suo onore montava, tra la porta della scuola e della chiesa, un baldacchino che ancora oggi è parte della celebrazione. L’enorme ciclo pittorico del Tintoretto che ha reso famoso artisticamente questo luogo si potrebbe attribuire a questa committenza illustre, ma in realtà il grande artista non volle mai nessun pagamento di sorta, preferendo portare a termine quest’opera nel più breve tempo possibile come un ex-voto al santo e alla scuola, di cui era confratello: egli era un uomo della sua epoca e, come tale, era pervaso da un forte spirito religioso post-riformista (tra l’altro simile a quello del Trecento) che riversò nelle sue opere, basate sul gioco tra luce ed ombra, sul forte movimento e su composizioni sceniche articolate. Per comprendere appieno l’opera del Tintoretto in questa sede è consigliabile cominciare dalla sala dell’albergo: in questa stanza (a sinistra dopo il tradizionale e imponente scalone), infatti, l’artista collocò il primo telero del ciclo, raffigurante il San Rocco in gloria, con una mossa astuta e alquanto disonesta, dal momento che questo dipinto doveva essere solo esibito, come molti altri, alla commissione giudicante, ma il Tintoretto, che desiderava moltissimo questa commissione, barò e lo appese al soffitto prima di aver vinto il concorso. Baro o no, il figlio del tintore di San Polo (da qui il soprannome) continuò poi per tutta la sua vita a decorare la scuola, partendo dalla sala dell’albergo e procedendo fino al pianterreno. La seconda opera è la grande Crocifissione, interessante perché mostra varie figure vestite secondo la moda seicentesca (come la Conversione di San Matteo di Caravaggio), ma si è colti ancor più da meraviglia quando ci si sposta nel salone, il cui progetto iconografico è importantissimo per capire la committenza e lo spirito che la animavano. Sul soffitto, in mezzo ad una miriade di dipinti e intarsi lignei ricoperti d’oro, sono disposte tre tele principali raffiguranti (come le altre) episodi dell’Antico Testamento: gli episodi mostrano un Dio forte, severo, benevolo con i giusti, terribile con gli empi e immensamente potente, le stesse qualità che la Chiesa di allora, così come la scuola, voleva trasmettere su di sé in quanto araldo della divinità in terra attaccata, però, dall’eresia protestante che dilagava per il vecchio continente. Ecco allora comparire l’episodio dell’erezione del serpente di bronzo, oggetto forgiato da Mosè per salvare gli Israeliti tormentati dai morsi delle serpi inviate dal Signore per punirli: un’allegoria dell’assistenza medica e sanitaria che la Scuola forniva ai pellegrini e agli appestati. Poi la rappresentazione di Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia per dissetare gli Ebrei in marcia nel deserto così come la Scuola si preoccupava di fornire l’acqua “materiale” ai bisognosi (l’acqua a Venezia è un bene raro) o agli ammalati (la peste in particolare provoca molta sete) e l’acqua “spirituale”, ovvero quella del battesimo. Infine l’episodio della manna dal cielo, cibo che ricorda le elargizioni gratuite che la scuola praticava ma anche le celebrazioni eucaristiche a cui partecipava. Un complesso programma lega i teleri del soffitto a quelli delle pareti, che narrano le vicende del Nuovo Testamento e che si caratterizzano per una maggiore lucentezza, simbolo della gioia che Gesù porta nel mondo, e anche per una maggiore rusticità delle ambientazioni: si guardi la natività, che pare ambientata in un fienile della campagna veneta. Questo legame tra potenza del soffitto e carattere più terreno delle pareti sembra quasi un’allegoria di un altro legame, quello che nella fede cristiana univa i ricchi signori della città, con i loro palazzi sul Canal Grande, e i contadini della campagna o i “poareti” dei quartieri più degradati di Venezia. È però da aggiungere che essi si trovavano uniti anche nella fede a San Rocco, che da unico figlio di un’agiata coppia di Montpellier finì col morire pellegrino in una cella e nel pericolo della peste, terribile epidemia che i Veneziani hanno scelto di affrontare sia sul lato scientifico e pratico che su quello spirituale e religioso: ragione e fede, due anime che ancora accompagnano la vita dell’uomo.