Achille Lauro a Sanremo 2020: una “queerness” dal retrogusto dannunziano

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Uno dei comuni denominatori tra i giudizi della critica alle performance di Achille Lauro alla settantesima edizione del Festival di Sanremo sembra essere il fatto che esse costituiscano quasi un progetto autonomo, in buona parte avulse da molte delle esibizioni degli altri concorrenti. Il cantante, infatti, si è proposto per tutte le serate in maniera estremamente provocatoria e dirompente: una “stranezza” esplosiva che ha lasciato a bocca aperta, fra fischi e ammirazioni, la maggior parte della platea dell’Ariston.

Se fossimo sui banchi di scuola, si potrebbe accusare Achille Lauro di essere andato fuori tema: non è la musica ad essere protagonista, o di sicuro non l’unica. Essendo però su uno dei palchi più noti della cultura pop italiana, la questione diventa più intricata. La dimensione performativa è la vera chiave di lettura in cui si esplica la poetica di Lauro: “una piece teatrale lunga quattro minuti” l’ha definito lo stesso cantante in uno dei suoi ultimi post. Il trapper, infatti, insiste molto sugli aspetti scenici e prossemici, come gli abiti estremamente sontuosi e le movenze dichiaratamente ambigue, sensuali, il tutto inquadrato in riferimenti a personaggi centrali della cultura occidentale, reinterpretati in chiave androgina come martiri di libertà e artisti performativi: San Francesco, David Bowie, la Marchesa Luisa Casati Stampa ed Elisabetta I Tudor.

Tuttavia, l’esperimento del cantante, forse più sociale che artistico, non detiene il primato temporale. Infatti, la tradizione dell’esibizione en travesti ha radici molto profonde. In particolare, il primo e il terzo outfit paiono suggerire un interessante paragone con un celebre antecedente del primo Novecento: Le martyre de Saint Sébastien di Gabriele D’Annunzio, di cui l’esperienza sanremese ripercorre contenuti e ostacoli per la propria sensualità profana, per l’allestimento scenico e per la sua ricezione (soprattutto per quanto concerne le critiche negative).

Siamo a Parigi, 1911, Thèâtre du Châtelet: D’Annunzio ha dato vita al proprio sogno di opera d’arte totale, collaborando con le punte di diamante della cultura degli anni Dieci francese, come il compositore Debussy, la compagnia di danza dei Ballets Russes e la loro interprete Ida Rubinstein come protagonista. Il soggetto scelto è forse uno dei santi che già solo a livello iconologico spicca per la sua efebica sensualità, San Sebastiano. In un interessante saggio, Haitzinger e Ostwald coniano la categoria di performative queerness, dimensione culturale entro cui pare muoversi l’esperienza dannunziana-rubinsteiniana, dal momento che questo profano San Sebastiano appare bizzarro, queer, per il suo essere fuori dagli schemi e dagli stereotipi borghesi dell’identità nazionale, religiosa, artistica e sessuale. Quella proposta è quindi un’etichetta molto sfaccettata, di cui la sfera erotica costituisce forse l’accezione più evidente, ma di certo non l’unica.

Per dipingere il proprio San Francesco, Achille Lauro – dicevo – pare riprendere la provocatoria tinta sensuale già sperimentata dal poeta italiano, scelta che ha fatto scattare una dinamica simile al livello della ricezione del pubblico. L’arcivescovo Ammette, ancor prima della première allo Châtelet, censurò forse uno degli esperimenti più arditi della produzione dannunziana, vedendo nell’interpretazione del santo da parte di una donna “una rappresentazione scandalosa, uno di quei tentativi di corruzione dello spirito pubblico e della moralità pubblica che la setta giudeo-massonica non cessa di perseguire con tutti i mezzi”. Inoltre, la Rubinstein fu spesso accusata di non essere all’altezza del purismo del testo francese redatto dal vate. Il terremoto mediatico e performativo di Achille Lauro ha avuto un effetto simile, se si considera che buona parte delle critiche visibili sui social riprendono, mutatis mutandis, gli stessi capi d’accusa mossi nel 1911. Sono invece gli apprezzamenti ad essere molto più agguerriti di quelli che sostennero l’esperimento dannunziano. Il cantante di “Me ne frego” non manca infatti di copertura mediatica: un fattore centrale, che ha permesso una levata di scudi in suo favore soprattutto da parte dei più giovani, che ne apprezzano, da un lato, la carica ideologica, dall’altro, l’esibizione scenica.

Parto da quest’ultimo aspetto: al centro delle critiche spesso si è tirata in causa, per esempio, la tutina della prima serata, colpevole di essere troppo succinta e di cattivo gusto. La mise en scene, al contrario, risponde a un progetto, curato sin nei minimi dettagli, che si sviluppa non solo sul palco dell’Ariston, ma anche sulle piattaforme social. Gli ultimi post di @achilleidol quasi riprendono il gusto kitsch dell’opera di D’Annunzio, giocando spesso sulla dicotomia cromatica fra il nero e lo splendore abbacinante di oro e bianco.  L’estetica Art Nouveau è reintepretata sistematicamente dal cantante sanremese, come conferma la scelta di impersonare la marchesa Stampa, una delle più note muse e artiste della Belle Epoque. Queste scelte fan sì che anche i costumi paiano recuperare quelli sfoggiati sul palco dello Châtelet, che insistevano pesantemente sulle stesse tinte. Inoltre, un secolo fa, come Lauro oggi, D’Annunzio si rivolse ai migliori stilisti sul mercato. Se Lauro si è affidato alla maison che forse meglio poteva interpretare questa estetica, Gucci, D’Annunzio era affiancato dalla genialità alla Klimt di Léon Bakst, costumista e scenografo dei Ballets Russes, una compagnia di danza che spesso inscenava nelle proprie opere modelli di sessualità ormai in crisi (si pensi a Le spectre de la rose o a L’apres-midi d’un faune).

Anche, e direi soprattutto, a livello ideologico-concettuale il festival di Lauro sembra quindi porsi come erede della coppia Rubinstein-D’Annunzio. La canzone, dal testo abbastanza tradizionale, acquisisce la propria portata rivoluzionaria nella dimensione performativa. Vero fil rouge del gioco di ruolo del cantante è l’insistere su modelli sessuali ormai vacillanti. Alla “mascolinità tossica” si oppongono archetipi quasi androgini di libertà che spesso si traducono in movenze sensuali e baci espliciti al batterista Boss Doms. Un’irriverenza sistematica rispetto a ogni ruolo precostituito, a cui la geniale performative queerness di Achille Lauro non può che rispondere con un tocco di rossetto, un sorriso beffardo e un sincero “Me ne frego”!

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