Danza e tecnologia: maquillage digitale o ricerca di nuove vie espressive?

Il recente spettacolo del ballerino Roberto Bolle, Danza con me, oltre a proporre al grande pubblico della Rai capolavori coreografici di artisti del calibro di John Neumeyer, costituisce un interessante punto di partenza per indagare le molteplici occasioni di confronto fra due ambiti quanto mai distanti: la danza e le ultime frontiere dell’informatica. Durante l’evento del 1 gennaio, infatti, “l’étoile dei due mondi” ha improvvisato un passo a due con un braccio meccanico e si è esibito in un assolo ispirato a Dorian Gray coreografato da Massimiliano Volpini, in cui il “doppio” del protagonista era impersonato da un ritratto virtuale proiettato sul fondale. Una tecnologia simile rende possibile un altro loro esperimento coreutico, Prototype, risalente a non più di cinque anni fa, in cui un video creato ad hoc metteva in risalto le linee apollinee del danseur.

È quindi corretto parlare di una nuova estetica?

Secondo la Professoressa Franco, docente di Storia del Teatro e della Danza presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, questa affermazione è da ridimensionare. “È certamente un esperimento interessante”, ha commentato in un’intervista esclusiva per il Digital Humanities Project, “ma resta un maquillage digitale più che il frutto di una vera sperimentazione con la tecnologia. Del resto l’attrazione (e la repulsione) per il digitale è forte nel mondo della danza fin dai primi decenni del Novecento, una fantasia modernista”.

È però innegabile che, al giorno d’oggi, la macchina e l’uomo siano protagonisti di un intenso dialogo anche sul palcoscenico e, a ragion del vero, da sempre tutte le arti performative hanno cercato di utilizzare il progresso scientifico per rendere lo spettacolo più fedele alla realtà o, al contrario, per enfatizzarne l’effetto di meraviglia. L’illuminotecnica e l’utilizzo di macchine teatrali hanno permesso, infatti, in epoche diverse di elaborare linguaggi sempre più complessi. Non bisogna pertanto pensare che la tecnologia causi un totale snaturamento di questa delicata disciplina: “il tentativo dell’arte di far propri gli strumenti di ogni epoca”, afferma la prof.ssa Franco, “non implica automaticamente il rifiuto di estetiche teatrali più tradizionali che convivono sulle scene e nelle programmazioni teatrali con le sperimentazioni più innovative”.

Negli ultimi anni, quest’arte ha cercato di superare un limite intrinseco alla sua stessa natura: il suo essere effimera. La necessità di digitalizzare il vasto repertorio ideato da Pina Bausch raccolto e custodito dal Pina Bausch Digital Archive è uno dei tentativi più recenti di contrastare il pericolo che la danza, forse ancor più delle altre arti performative, si esaurisca in un “breve sogno”, destinato ad essere inghiottito dallo scorrere del tempo, rilegato alla sola dimensione del ricordo. Se, infatti, la musica può contare sullo spartito e il teatro drammatico (quasi sempre) sull’esistenza del copione, la trasmissione di quest’arte è più delicata e complessa. Una delle soluzioni individuate in epoche diverse è stata la messa a punto di sistemi di notazione, sin da quello ideato nel 1425 Domenico da Piacenza (Domenichino) autore di De arte saltandi et choreas ducendi, fino al settecentesco Coréographie di Feuillet e ai metodi introdotti nel Novecento da Rudolf Laban, noto poi come “Labanotation”, e Rudolf Benesh. Questi sistemi sono divenuti sempre più complessi e per questo in grado di registrare su carta – e oggi anche su software – ogni sfumatura del movimento del corpo nello spazio e nel tempo. L’uso del computer e l’applicazione informatica a questi metodi ha profondamente influenzato una delle sintesi più complete fra danza e  digitale: quella del ballerino e coreografo statunitense Merce Cunningham (1919-2009, che sviluppò una tecnica antipsicologica, antinarrativa, indipendente dai suggerimenti della musica, ispirata alla totale casualità. La ricerca di nuove vie espressive anticonvenzionali lo condussero quindi a trovare nuovi punti di contatto fra le sue coreografie e l’informatica, tanto da affermare che:

“Penso che [la tecnologia] possa influenzare l’esperienza coreografica del movimento così come la luce elettrica cambiò tempo fa il modo in cui i pittori vedevano il mondo”

La curiosità per questa dimensione della ricerca artistica lo spinse a sviluppare il software Life Forms (1986), in grado di ricreare la forma umana superando però i limiti ad essa congeniti: “espande quello che pensiamo di poter fare”, affermò il coreografo. In una delle sue ultime creazioni, Fluid Canvas, sfruttò questo strumento, dal momento che gli permetteva, nonostante i limiti imposti dall’invecchiamento, di ricreare concretamente in sala quel “physical sense of something” da trasmettere ai ballerini in prova, così importante nell’elaborazione coreografica nella filosofia di Cunningham.

Negli ultimi anni, si è fatto sempre più ricorso alle tecnologie per cercare nuove vie espressive a livello internazionale. In particolare, i lavori del digital artist austriaco Klaus Obermaier colpiscono indubbiamente per l’uso massiccio di strumenti digitali sul palcoscenico: nel 2006 porta in scena un’interessante rilettura de Le sacre du Printemps, il celebre balletto di Stravinsky che tanto scandalo sollevò alla sua premiére a Parigi nel 1913, ora concepita come “an interactive real-time generated stereoscopic dance and music project”. Lo spettacolo evoca la carica rivouzionaria della versione del 1913 di Vaslav Nijinskij per i Ballets Russes optando per una gamma di movimenti improntata a quella “dissoluzione di sviluppi e strutture tradizionali”, che già nel modello novecentesco era un chiaro riflesso di una società sull’orlo del baratro. Con l’introduzione di tecnologie, quali capture movement e proiezioni, Obermaier amplifica il carattere rivoluzionario di questo capolavoro. La compresenza sulla scena del danzatore e di un suo avatar digitale immerso in un surreale spazio 3D dà origine a quella che lo stesso Obermaier ha definito meta-coreografia. Oltre ad estendere la gamma di movimenti eseguibili sulla rivoluzionaria musica politonale di Stravinsky, questo approccio garantisce una maggiore partecipazione emotiva al pubblico, che non ha tardato a dimostrare il suo entusiasmo. “Nessuno è mai riuscito a catapultare un classico come ‘La sagra della primavera’ nell’era digitale – si legge sulla recensione di Ivan Hewett pubblicata sulla testata londinese The Daily Telegraph – Obermaier dice che il problema al giorno d’oggi è imparare a vivere in un mondo virtuale; questa sua opera potrebbe non darci la soluzione, ma certamente trasmette il vivido senso del pericolo”.

“Con questa produzione – dichiara invece Karin Friedl per la Zeitung Österreich – tutti le parti in gioco hanno dato origine ad una nuova era nel teatro.”

di Manuele Veggi

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