Tutto iniziò con il Duce.
Lesse il fascicolo tutto d’un fiato, e afferrò la penna senza perdere neppure un secondo. Sulla prima pagina, quella che recava la fotografia e la data della scomparsa, scrisse poche parole, decise e vigorose.
Voglio che si trovi.
Benito Mussolini era pronto a dar fondo a tutte le risorse del Ministero degli Interni pur di ritrovarlo. Appose la sua firma con mano pesante, e consegnò il documento al segretario. Il passamano fu breve, frenetico: da un corridoio all’altro, la pratica viaggiò sino alla scrivania del Procuratore Capo.
Lui era l’uomo giusto, uno che non cadeva mai preda di facili illusioni, uno che soppesava tutte le variabili e sapeva come andavano le cose nel mondo. Il Procuratore Capo, vecchia volpe dei servizi segreti, lesse e rilesse le parole del Duce, e fece l’autopsia del suo stile. Mussolini aveva una calligrafia decisa, stretta, senza tempo per i ripensamenti.
Anche lui prese una penna, e trovò il coraggio di aggiungere una nota.
I morti si trovano. Sono i vivi che possono scomparire.
Con queste parole, scritte nei primi giorni di aprile del 1937, cominciarono le ricerche.
L’uomo introvabile
La scomparsa di Ettore Majorana rimane uno dei più grandi misteri del Novecento italiano. Era il 25 marzo 1937 quando il giovane fisico di via Panisperna, neppure trentenne, si imbarcò da Napoli per Palermo, facendo perdere per sempre le sue tracce. A nulla valsero le ricerche della polizia, gli appelli della famiglia e le fortunose inchieste di una dozzina di giornalisti. Ettore Majorana era svanito nel nulla, scomparso nella sua Sicilia.
Come scrisse quel Procuratore Capo che per primo mise le mani sul caso, il problema non sono i morti, ma i vivi. Il corpo di Majorana non venne mai ritrovato, e senza una tomba da riempire la società italiana cominciò a costruire decine di versioni attendibili sulla sua scomparsa. Stava nascendo il mito di Majorana, che nel secondo Dopoguerra sarebbe divenuto un motore narrativo senza eguali nella penisola.
Ci fu chi disse di averlo visto in Argentina; altri giurarono di averlo conosciuto in Venezuela, dove si faceva chiamare sig. Bini. Per alcuni, invece, Ettore era stato rapito dal Terzo Reich, che sperava militarizzarne le conoscenze scientifiche.
In mezzo a prove seducenti e teorie sempre più astruse, l’Italia si è sempre sentita attratta da Majorana. Un giovane dalla grandissima intelligenza, un personaggio tormentato, l’unica luce viva nel tramonto violento del regime fascista.
Majorana e gli anni di piombo
Siamo nel 1975. Sulla politica italiana comincia a grandinare: sono le prime avvisaglie degli anni di piombo. Leonardo Sciascia fa uscire una serie di inchieste che verranno poi rilegate in un unico volume firmato Einaudi. Si intitolerà La scomparsa di Majorana. La teoria è semplice: Ettore non è morto, è semplicemente scomparso. Secondo Sciascia, Majorana si è nascosto dal mondo, ha tagliato i ponti con tutti, e ha trovato rifugio in una comunità di Gesuiti. Lì ha vissuto il resto dei suoi giorni.
Secondo l’autore, Majorana non era fatto per il suicidio; occorreva troppa fermezza d’animo. Il giovane Ettore aveva l’unico difetto d’essere un genio: uno che secondo Fermi poteva gareggiare con Newton e Copernico. E per questo non sopportava il mondo che lo circondava. Un mondo stritolato dalla dittatura, asfissiato dalla censura fascista, che minacciava di piegare le più grandi scoperte della fisica a tristi scopi bellici. Un mondo invivibile.
Abbiamo bisogno di Majorana
Ma Sciascia scava più in profondità. Sembra quasi che le indagini sulla scomparsa di Majorana gli servano solamente da pretesto: tra le righe della ricostruzione, lo scrittore restituisce una personalità tormentata, romanticamente perduta, inadatta ai tempi moderni. Secondo Sciascia, Majorana era “un genio immaturo e irrequieto”, tormentato da un vero e proprio “dramma personale”. Studiò la fisica, studiò la filosofia; le definiva la parte e il tutto dello scibile umano. Ma non gli bastò. Ovunque cercasse delle spiegazioni, si rendeva conto di aver di fronte altre domande. Nella sua inquieta ricerca, i punti fermi divennero sempre più rari, e i punti interrogativi, invece, soverchianti. E come poteva sopportare, tra l’altro, di vivere una società che ormai ragionava per punti esclamativi, per certezze, per verità assolute?
Cercò l’oblio, il buen retiro. E lo fece – sempre secondo Sciascia – traendo spunto da un altro siciliano, scrittore pure lui, che in quegli anni manifestò la stessa inquietudine. Era Luigi Pirandello. Majorana si rivide in Vitangelo Moscarda, nella sua metamorfosi apuleiana. Il fisico trovò un compromesso interiore leggendo Pirandello: bisognava uscire dal mondo, farsi altro, viverlo da fuori. Majorana voleva essere vagabondo, proprio come gli sventurati eroi pirandelliani.
Per Vitangelo Moscarda fu il naso; e per Majorana? Per lui, che venne definito il più vivo ingegno della scienza italiana, quale fu l’epifania?
Forse era deluso dai risultati della fisica moderna; forse sperava che la filosofia fosse più esatta delle scienze pure che non riuscivano a irreggimentare il mondo. Forse aveva annusato la minaccia atomica, che da lì a sette anni avrebbe sconvolto tutto il mondo, compreso il suo mentore Enrico Fermi.
Majorana, semplicemente, scomparve: né morto né vivo, si aggiunse ai paradossi della fisica che amava studiare. Proprio come il gatto di Schrodinger, Majorana era un morto vivente. Un fantasma.
Il genio maledetto
Dentro l’inquietudine di Majorana, Leonardo Sciascia ci fa vedere la nostra condizione. Nascondendola dietro i crismi del genio, ci fa toccare con mano la nostra angoscia. Usciamo dalla Scomparsa del 1975 accresciuti, perché dietro al mito di Majorana abbiamo ritrovato noi stessi. Dietro alla figura del genio maledetto, c’è il disagio della società italiana. Dietro all’incompreso, al dark hero abbronzatosi sul Mediterraneo, ci sono le perplessità di tutto il nostro Novecento.
Dietro a Majorana, insomma, ci siamo noi. E il primo a rendersene conto fu Pier Paolo Pasolini, che nel 1975, pochi giorni prima di morire, fece in tempo a commentare l’ultima opera di Sciascia. Nella sua ultima intervista, disse: “è bello, è bello il Majorana di Sciascia. Bello perché ha visto il mistero, ma non ce lo dice. Hai capito? C’è una ragione per quella scomparsa, ma questa indagine non chiarisce niente. Il libro è bello proprio perché è la contemplazione di una cosa che non si potrà mai chiarire.”
Come tutti i miti, anche questo serve a qualche cosa: e grazie a Sciascia scopriamo che l’inquietudine di Majorana è l’inquietudine di tutti noi. Il suo desiderio d’evasione di fuga, di dissipatio, è in fondo un sentimento comune.
Purtroppo, Pasolini non poté approfondire il bozzetto che lasciò su La scomparsa. Qualche giorno più tardi, il friulano andò a morire all’idroscalo di Ostia, scomparendo anche lui in circostanze poco chiare. Ma questo è un altro mistero italiano, un altro rebus che, con Majorana, Campana e Moro, attraversa il nostro Novecento.
Il Majorana di Sciascia, dunque, è bello. Bello soprattutto da un punto di vista letterario, perché l’autore ha ridotto le inquietudini di un uomo dentro le pagine di un saggio. Forse, come farà qualche anno dopo per L’affaire Moro, Sciascia ha trasformato una vittima in un suo personaggio, ha romanzizzato Majorana. Lo ha reso un doppio di sé stesso, uno specchio letterario su cui riflettere e riflettersi.
Forse, il Majorana che immaginiamo in un convento di Gesuiti, pirandellianamente inorridito dinanzi alla vita, non è mai esistito. O meglio, esiste solo nello spazio di Sciascia, nella sua letteratura, nella sua personale visione del mondo.
Sciascia aveva bisogno di Majorana, così come avrà bisogno di Moro nel 1978. Sciascia aveva bisogno di queste due figure inquiete, di reietti nel loro ambiente di nicchia, per fare chiarezza a se stesso. E noi, sulla sua scia, non possiamo che fare lo stesso. Questi due saggi ci dicono molto sulla fisionomia della società italiana, e forse non hanno mai ricevuto l’attenzione che meriterebbero.
Sconfinamenti
Il mistero di Majorana, dopo il volume del 1975, non fu più lo stesso. La leggenda aveva preso il sopravvento, arrivando a sedurre persino le indagini giudiziarie. Tanto per dirne una: le ricerche sul giovane fisico sono ancora attive, ma affermano contemporaneamente che sia morto di tubercolosi in una sperduta contrada calabrese nel 1938, ma anche che sia stato vivo, in Venezuela, almeno dal 1952 al 1959. Senza contare i testimoni fededegni che hanno affermato di aver conosciuto Majorana alla fine della vita, quando conduceva una vita da barbone in un villaggio siciliano, dove sarebbe morto negli anni Settanta.
In mezzo a tanto ciarpame mediatico, a noi cosa resta? Per quale motivo un caso di scomparsa, per quanto affascinante, continua a incuriosirci? Perché, da Sciascia in poi, sentiamo qualcosa, quando ci approcciamo al paradosso di Ettore Majorana?
Perché Majorana è uno, nessuno e centomila allo stesso tempo. Della sua vita esistono così tante versioni da farlo sembrare un eroe pirandelliano, o forse un mito greco. E tutto nasce dall’incapacità dell’intellighenzia nostrana di metabolizzare il suo lutto. Un uomo così intelligente non poteva morire in modo ignobile: il mito cominciò così, come una giustificazione. Sino a prevaricare la realtà, sino a intaccare la memoria storica.
La vita di Majorana s’è inabissata negli archivi della storia, e le sue tracce si sono disperse come particelle della fisica quantistica. Il Majorana esistito lasciava spazio al Majorana letterario, al mito di cui siamo innamorati. Era giunto il tempo di Sciascia, del dark hero amletico e irrequieto.
Nel 1975 Majorana diventa lo scienziato che conosciamo. Diventa un doppio di tutti noi. Diventa un personaggio pienamente letterario, affetto come tanti altri da sicilitude. Un perfetto punto di contatto tra l’angosciante metafisica pirandelliana e l’asciutto realismo sciasciano. Diventa figura letteraria, poesia, arma retorica efficace.
Quel Majorana non è mai esistito, è puro artificio letterario. Eppure ne abbiamo bisogno. Perché immaginare che l’uomo più intelligente della sua generazione abbia scelto di uscire dal mondo, vagabondo per sempre come Vitangelo Moscarda, sembra l’unica cosa sensata da fare. Majorana scomparve poco prima della promulgazione delle leggi razziali; avvertiva che assieme alla fisica tradizionale si stava sgretolando pure il mondo come lo si aveva sempre descritto. E non vedeva alternative all’orizzonte. A noi Majorana, questo Majorana, serve: in qualche modo ci sentiamo affini al pensatore inquieto, fisso come la statua di Rodin nella sua piccola cella al convento gesuita.
Anche a noi è toccato in sorte un mondo che si sgretola o minaccia di farlo. Rimane da capire se il gesto di Majorana fosse atto di coraggio o di vigliaccheria. Sarebbe bello poterlo riavere qui, riportarlo come per magia al nostro presente dopo una lunga ibernazione; dobbiamo invece accontentarci di una manciata di fotografie, molte chiacchiere, e di un ottimo romanzo.