NO MAN IS AN ISLAND – Spia

Era arrivato in un giorno di nebbia. L’isola era improvvisamente emersa spettrale dalla laguna, una sola luce a rischiarare il molo. L’avevano condotto a forza all’entrata e gli avevano fatto domande, ovviamente, ma lui sapeva di non poter parlare. Mantenere il segreto era la priorità. L’avevano fatto svestire, l’avevano ispezionato (poteva pur sempre nascondere qualcosa), gli avevano dato nuovi vestiti e l’avevano condotto alla sua cella, dove l’avevano legato.

Sapeva che in realtà volevano farlo fuori. Era un individuo pericoloso, il suo gioco era stato scoperto, il suo segreto compromesso. Lo sapevano già? Non lo sapevano? Continuava a pensarci senza venirne a capo. Era fermamente convinto che volessero eliminarlo, ma in un modo che risultasse accidentale, quasi normale, e non prima di avergli carpito l’informazione. Nessuno sapeva che l’avevano preso, poteva solo resistere. O c’era un modo di scappare? Non riusciva a capirlo, si agitava tentando di vedere fuori dalla sua cella. Esasperato, urlava imprecazioni ai suoi aguzzini.

Doveva mantenere la calma, però. Nei giorni successivi non prese cibo né acqua, poiché erano di sicuro avvelenati o drogati in qualche modo. Sopportò le sevizie con dignità: nonostante le scosse, non avrebbe detto una sola parola. Rifiutava le bevande che gli proponevano, erano sicuramente intrugli per fargli dire ciò che non voleva.

Ogni tanto, gli permettevano di passeggiare per l’isola. “Che imbecilli” pensava, studiando le mura che circondavano il perimetro dell’isola, valutando come uscire. O forse sapevano che tanto di lì non c’era modo di andarsene? Questa presupponenza lo irritava. Non poteva sopportare i suoi aguzzini, quando li vedeva gli si scagliava contro urlando, ma inutilmente, poiché lo immobilizzavano e lo riportavano in cella facilmente. Aveva anche scoperto un albero di fichi, di cui poteva nutrirsi senza preoccupazioni. C’era anche dell’uva, di cui era ghiotto: ne prendeva anche da riportare in cella.

Era però stanco delle torture, era stanco del poco cibo, non riusciva a riposare. Si arrovellava: perché non chiedevano? Allora sapevano già ciò che aveva scoperto? Era stato riferito loro da qualcun altro? Non sopportava il pensiero. E continuavano a cercare di avvelenarlo: aveva lasciato il cibo ai topi, ma neanche le bestioline l’avevano preso, presentendo la trappola mortale. Il giorno dopo aveva ritrovato il cibo. Ma lo volevano veramente morto? Da quest’isola non usciva nessuno senza essere controllato da loro: la notizia non sarebbe passata. Potevano dunque fargli quello che volevano, era alla loro mercé. Eppure la fine non arrivava.

Si arrovellava, riconsiderava tutte le possibilità, non ne poteva più, chiedeva di uscire, glielo negavano e non poteva trattenersi dall’imprecare. Continuava a non mangiare, diventando sempre più debole. Il cibo si faceva di giorno in giorno sempre più attraente. Forse un po’ non gli avrebbe fatto male… no, che diceva? Resistere, ad ogni costo. Era troppo importante, il cibo era sicuramente avvelenato. Gli mancavano le forze: come mai? Perché non la facevano finita?

Cominciò a vomitare, poi ebbe un attacco di dissenteria, non si reggeva in piedi. Ma non poteva cedere, rifiutava ciò che gli offrivano. Non si sarebbe piegato, non avrebbe mangiato la loro roba, non avrebbe preso le loro schifezze. Spezzato, rantolava, con le facce dei suoi secondini che si sostituivano davanti ai suoi occhi. Non ce l’avevano fatta, non avevano avuto nulla da lui, aveva vinto. E in quel momento, all’apice della sua agonia, un sorriso gli si disegnò sul volto, perché loro non lo avevano capito, ma lui aveva vinto.

Il paziente Luigi — morì da colera il 19 agosto 1849 ad un’ora pomeridiana nel Manicomio dell’Isola di San Servolo, nella laguna di Venezia.

di Amedeo Zorzi

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