Mandarino e Cantonese lingue ufficiali del festival
Per tutti coloro che non se ne intendono di cultura “orientale”, il Far East Film Festival potrà sembrare nuovo a sentirsi. Ogni anno, solitamente durante la seconda metà di Aprile, per un’intensa settimana la città di Udine viene affollata da studiosi o semplici curiosi interessati alla cultura asiatica e più in particolare al cinema.
Questa rassegna cinematografica accoglie ogni anno un numero elevatissimo di spettatori (per questa edizione sono stati contati quasi 60mila spettatori) tanto da riuscire a riempire anche nei giorni feriali i due grandi teatri e cinema che si prestano ad ospitare i vari film, il Teatro Nuovo Giovanni da Udine e il Visionario.
La rassegna 2018 è stata ricca di film principalmente di derivazione cinese, tanto da contare su 81 film ben 13 che sfoggiavano come lingua ufficiale cinese mandarino o cantonese.
Ma forte è stata anche la presenza sudcoreana che come sempre non ha tradito le aspettative: il film “1987: When the day Comes” del regista Jang Joon-hwan è stato infatti scelto dal pubblico come miglior film, seguito dagli spaventosi zombie giapponesi di “ One cut of the Dead” di Ueda Shinichiro e, al terzo, ancora la Corea con “The Battleship Island” di Ryoo Seung-wan.
Un’edizione quella di quest’anno che ha spaziato in tutti i generi, dall’horror di “Gonjiam: Haunted Asylum” di Jung Bum-sik, al racconto di una realtà distopica come quella di “The Scythian Lamb” di Daihachi Yoshida, passando per le commedie e i musical come “The Portrait” del filippino Loy Arcenas, non deludendo le aspettative e i gusti dei numerosi studenti e appassionati provenienti da tutta Europa.
Mia personale menzione va al documentario storico “Courtesy to The Nation” del regista sudcoreano Gwon Gyung-won, che è stato film complementare al documentario vincitore di questa edizione. Il regista è stato in grado di raccontare i soprusi, gli assassinii che hanno avuto come vittime gli studenti che tra gli anni Ottanta e Novanta hanno combattuto per la democrazia in Corea del Sud. Il documentario racconta le vicende dello studente Cahng Kihoon, accusato per il suicidio assistito di un compagno di studi: gli autori sono infatti riusciti a rintracciare lo stesso Cahng che dopo essere uscito dal carcere ha vissuto la sua vita nell’ombra. Grazie alla sua testimonianza, il regista ha ricostruito le varie ramificazioni della corruzione dilagante di quel periodo in cui funzionari governativi partecipavano volontariamente a cospirazioni contro gli studenti stessi.
Il documentario, mix di interviste, video dell’epoca e ricostruzioni storiche, lascia con un nodo in gola difficile da sciogliere, rappresentando al meglio un periodo in cui ragazzi come noi lottavano per un paese più aperto e democratico e, invece di essere portati in palmo come esempio, sono stati ripagati con violenza e atrocità da parte del governo. Durante le riprese, gli ex studenti manifestanti, promotori del movimento sudcoreano per la democrazia, hanno riflettuto sul significato effimero della giovinezza e sull’ordinarietà delle nostre vite invece ai giorni nostri, che viviamo coscienti dei nostri diritti ma spesso dimenticandoci di chi ha combattuto e dato la vita per poterci permettere di vivere così, come viviamo ora, liberi.
di Irene Melinu