Intervista ad Elisabeth Åsbrink (Svezia) – INCROCI DI CIVILTÀ 2018

“Da questo punto di vista tutti i miei libri hanno questo in comune, sono nati da un qualcosa di doloroso…”. A parlare è Elisabeth Åsbrink, giornalista e scrittrice (in questo ordine solo cronologicamente: altrimenti, dice, è il ruolo di scrittrice ad aver decisamente preso il sopravvento) svedese originaria di Göteborg, e il “qualcosa di doloroso” di cui parla non viene – solo – dalla sua storia personale, bensì dalla Storia con la esse maiuscola, della Svezia e del mondo.

Come giornalista ha collaborato con Sveriges Radio e SVT, rispettivamente radio e televisione svedese, e le tematiche sociali lì affrontate tornano nei suoi libri, approfondite e sviscerate. Interessata soprattutto a fascismo e nazionalismo, ha pubblicato Smärtpunkten (2009) che ricostruisce il dipanarsi di eventi fra la concezione della pièce teatrale di Lars Norén 7:3 (1999) e il delitto di Malexander ad opera di tre detenuti neonazisti che Norén aveva ingaggiato come attori; Och i Wienerwald står träden kvar (2011), basato su un fascio di 500 lettere indirizzate ad un giovane ragazzo ebreo emigrato in Svezia, Otto, poi grande amico di Ingvar Kamprad – da un lato fondatore di IKEA, dall’altro sostenitore dell’ideologia nazista e del leader del partito fascista svedese Per Enghdal. Con Och i Wienerwald står träden kvar Elisabeth vince il prestigioso premio letterario Augustpriset, ma attira su di sé anche critiche per le informazioni diffuse circa Kamprad. Aveva toccato “qualcosa di doloroso” per gran parte degli svedesi.

1947 (2016) è il suo libro più recente, pubblicato in otto Paesi al di fuori della Scandinavia, e questa volta è la portata fino ai giorni nostri dell’anno 1947 non solo per la comunità svedese, ma anche per quella internazionale ad essere sotto la sua lente di ingrandimento.

Incontro Elisabeth via Skype perché, oltre ad essere divisa fra Stoccolma e Copenaghen, di dove è originario il marito, sta attualmente viaggiando fra città svedesi ed europee per parlare di 1947. Prossima fermata? Venezia.

“In Italia sono stata molte volte, anche a Venezia, ma solo per un paio di giorni,” mi dice, per poi interrompersi. “Sì, mettici il latte, grazie”, dice, rivolta al marito. (Eh sì, il caffè prima di tutto, per gli svedesi.)

“Quindi non vedo l’ora di avere un po’ di tempo a disposizione per – beh, il cibo, il vino, la pasta coi frutti di mare! Non sono molto originale. Ma voglio anche vedere un po’ d’arte, non sono ancora riuscita a visitare il Guggenheim.

“È anche la prima volta che uno dei miei libri viene pubblicato in italiano, ho già avuto buone recensioni, sarà interessante vedere come viene ricevuto in Italia. Ogni Paese inserisce un testo nel proprio contesto.”

Le spiego che il festival di letteratura verso cui è diretta non è come tutti gli altri, non solo perché è Venezia a farne da cornice, ma anche perché grande evento all’interno della vita universitaria di Ca’ Foscari, quindi con molte probabilità avrà anche studenti fra il pubblico – il gruppo di studenti di svedese rigorosamente fra le prime file.

“In Scandinavia quasi tutti i miei lettori hanno i capelli grigi”, invece. “Penso che sia un problema qui in Svezia, il marketing dei libri non viene indirizzato ai giovani, attraverso i social media, YouTube. In Polonia e Cecoslovacchia, invece, incontro spesso giovani colti fra i miei lettori.”

Le chiedo come tutto abbia avuto inizio, come sia nato il suo interesse per fascismo e nazismo, il filo rosso dei suoi libri.

“L’Olocausto fa parte della storia della mia famiglia, anche se a lungo ho voluto che non fosse così. Era un’eredità che non volevo avere, ma che alla fine ho dovuto accettare. Avevo 14-15 anni quando lessi un libro sul tema dell’Olocausto che mi colpì profondamente: questa potevo essere io, questa poteva essere la mia famiglia! Fu allora che presi la ferma decisione di accettare la responsabilità di questa storia; sono diventata giornalista, trattando tematiche sociali come la questione di rifugiati e migranti, che ho portato avanti nei miei libri.”

Ma come concilia lo spirito da giornalista con l’anima scrittrice?

“Ho sempre voluto scrivere, e sono sempre stata interessata a tematiche sociali, così sono diventata giornalista. Non avevo il coraggio di fare la scrittrice, non credevo di esserne in grado, fino al momento in cui circa dieci anni fa mi sono detta almeno di provarci. Sentivo il bisogno di aver più potere sui miei racconti: in quanto giornalista bisogna adattarsi ad un certo formato, alla redazione, e mi irritava soprattutto avere un limite di spazio. Volevo che fosse l’argomento a decidere, non il formato. Da giornalista bisogna essere sempre aggiornati sul proprio tempo, su ciò che gli altri giornalisti scrivono, è un movimento orizzontale; da scrittrice sono libera di andare in profondità. Sono più felice in questo tipo di movimento, verticale. E poi c’è anche una parte fisica nella scrittura: mi piace pensare a come sono le parole, come suonano, come si combinano l’una con l’altra, è un aspetto che mi diverte e che ritrovo nella poesia, che leggo spesso.”

A proposito di poesia: c’è qualche autore che consideri fonte di ispirazione?

“Fra gli svedesi sicuramente Gunnar Ekelöf e Tomas Tranströmer, poi la potessa polacca Wisława Szymborska e la danese Inger Christensen. Due uomini e due donne.”

Italiani..?

“Di poesia italiana non ne so molto, ma ho letto quasi tutto ciò che Primo Levi ha scritto. E sto leggendo La storia di Elsa Morante.”

In un’intervista hai spiegato come vuoi semplicemente raccontare i fatti come sono, e lasciare che siano i lettori a giudicare e prendere una posizione in merito.

“Penso che la maggior parte dei miei lettori apprezzi che io non cerchi di dire loro cosa pensare o che opinione avere, lasciando a loro questa libertà. Allo stesso tempo ho visto quanto sia importante parlare alla gente perché ricavino chiavi di lettura, aiuto  nell’interpretazione e  rielaborazione di ciò che hanno letto. Vedo questo bisogno, di trovarsi in una stanza e discutere temi importanti – come democrazia, fascismo, nazionalismo, identità – tutte tematiche presenti nei miei libri. E dopo aver parlato spesso mi vengono incontro e mi dicono “Ora ho capito, ora vado a casa a leggere il libro di nuovo!”. C’è il bisogno di capire meglio il nostro contesto storico, il nostro tempo, e per questo c’è bisogno di questo tipo di libri.”

1947 nasce dal ritrovamento di alcune lettere da parte della famiglia di tuo padre, una gran parte della quale è stata vittima dell’Olocausto. E in un’intervista racconti come sia stata la terribile e violenta esperienza di una rapina a darti coraggio e ispirazione per scrivere Smärtpunkten. Quanto è importante avere una parte di te nei tuoi libri?

“Credo che sia molto importante per me partire da qualcosa che fa un po’ male; affina i miei pensieri e i miei sensi e in questo modo scrivo meglio. Perché mi tocca nel profondo. Magari riuscirò a trovare altri punti di partenza in futuro… Per 1947 era molto importante lasciare spazio anche ad avvenimenti positivi. È anche un anno pieno di speranza.”

Impareremo mai dalla nostra storia a non commettere sempre gli stessi errori?

“Credo che sia molto importante imparare dalla storia ma allo stesso tempo ricordare che la storia non si ripete mai allo stesso modo. Oggi molti paragonano il nostro tempo agli anni ’30, ma è un grande errore: siamo in un momento della storia molto diverso dagli anni ’30, sotto molti punti di vista, e se partiamo da questo paragone come presupposto approderemo a delle soluzioni sbagliate.”

Consigliamo di leggere 1947 (Iperborea, 2018) fra le atmosfere del ghetto a Venezia, in memoria di uno smärtpunkt, punto doloroso della nostra Storia.

Elisabeth Åsbrink sarà ospite a Incroci di Civiltà insieme a Erika Fatland venerdì 6 Aprile alle 16:00 (Auditorium Santa Margherita). Le autrici converseranno con Massimiliano Bampi. Per maggiori informazioni sull’evento, potete visitare la pagina web di Incroci.

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