Nella lista delle destinazioni Erasmus, le mete ambite e quelle sfigate si distinguono a colpo d’occhio. Parigi, seppur scritta in un rozzo stampatello Times New Roman, mantiene la raffinata eleganza di una dama aristocratica impegnata nella sua passeggiata quotidiana a Montmartre, accompagnata da un lieve aroma di croissant, dalla melodia di una fisarmonica e da una schiera di ammiratori incantati. Londra profuma di tè e di teatro, e con un po’ di attenzione si può udire, nel suono delle sue sei lettere, lo schiocco vivace di mille culture. Berlino sa di birra, di storia, di gioventù e di ribellione.
Il Belgio, in questa esplosione di magnificenza, rimane in disparte e ti osserva fantasticare sulle sue vicine metropoli con un sorriso sarcastico, sgranocchiando patatine fritte. Mentre le altre destinazioni della lista indossano la loro veste più accattivante e combattono per la posizione più evidente sullo schermo del tuo PC, si guardano in cagnesco e ti urlano nelle orecchie “scegli me!”, Gent se ne sta un po’ in disparte, tra Tolosa e Stoccarda. Me la immagino girata dall’altra parte, a ridacchiare per una barzelletta di cattivo gusto mentre si beve una birra trappista da dieci gradi. Non gliene frega niente di apparire interessante: le sue bellezze sono un regalo riservato esclusivamente a chi non se le aspetta, un omaggio alla serendipità. Definizione da Wikipedia della parola “serendipità”, dal momento che io stessa ne ho scoperto l’esistenza dieci minuti fa: «la fortuna di fare felici scoperte per puro caso, o di trovare una cosa non cercata e imprevista mentre ne si stava cercando un’altra». Non ne ho trovata testimonianza, ma sono pronta a scommettere che Horace Walpole, l’inventore del neologismo, fosse stato almeno una volta in Belgio.
Se vogliamo adottare una metafora immediata per chiunque abbia un debole per le battute talmente vecchie da rendere chi ancora le apprezza un ibrido tra un reperto storico e un eroe nazionale, possiamo dire che il Belgio è il Molise dell’Europa e Gent il Molise del Belgio. Nella cartina europea del turista medio, il Belgio non esiste: l’Olanda si allunga un po’ per coprire le Fiandre, la regione di Bruxelles è assorbita dalla Francia e la Vallonia che è, si mangia? Perché dovrei andare in questa sorta di buco nero, si chiede il sovracitato turista medio, quando intorno ho il Louvre, il London Eye e l’erba legalizzata?
Domanda legittima. La Tour Eiffel è forse un po’ troppo metallica, ma come simbolo nazionale fa la sua porca figura, specie se vista di notte. Il simbolo nazionale del Belgio è un bambino che piscia. Signori e signore, non sto scherzando: è una statuetta alta più o meno mezzo metro, rappresentante un paffuto neonato sbilanciato leggermente in avanti mentre tiene saldo tra le mani il suo fiero arnese, da cui sgorga un getto d’acqua che, per quanto assetati, viene poca voglia di assaggiare. Il Manneken Pis principale e più famoso si trova a Bruxelles, ma in quasi ogni città belga è presente una copia più piccola della statuetta, a volte accompagnata dal suo corrispettivo femminile: una ragazzina accovacciata impegnata nella stessa, appagante attività. Il motivo di questa brillante idea non è certo: tra le numerose leggende che circolano su di lui, le più rimarchevoli riguardano un bambino che avrebbe estinto a suo modo la miccia di una bomba con la quale i nemici volevano dare fuoco alla città, o un giovanissimo duca che, posto su un piano rialzato durante una battaglia per essere visibile dalle truppe in modo che acquistassero coraggio di fronte al loro prode leader, avrebbe urinato in segno di disprezzo sull’esercito avversario. La mia teoria è meno grandiosa: secondo me, un gruppo di importanti personalità belghe si è trovato nel luogo in cui più spesso le decisioni di maggiore impatto sul Paese vengono prese – un pub, ovviamente – con una discreta dose di birre ad alta gradazione. La conversazione che segue me la immagino più o meno così (il dialogo è stato riportato in Veneto per evidenti affinità elettive tra i due popoli, e ambientato ai giorni nostri per pigrizia dell’autrice riguardo all’accuratezza storica):
“Serto che la tore Eiffel in tee cartoline la fa proprio un bell’effetto.”
“Ma va in culo, sti francesi de merda noi xe boni de far un casso. Le nostre cartoline le xe pì bele.”
“Ma in tee nostre cartoline non ghe xe un casso. Chi xe chee compra le nostre cartoline?”
“Gnanca omo che rieso a trovare un simbolo nasional che ala tore Eiffel el ghe fa el culo.”
(traduzione per non veneti – compresa la sottoscritta:
“Certo che la Tour Eiffel fa proprio un bell’effetto sulle cartoline”
“Ma va’ a quel paese, questi francesi di merda non sono capaci di fare nulla. Le nostre cartoline sono più belle.”
“Ma nelle nostre cartoline non c’è nulla. Chi le compra le nostre cartoline?”
“Scommettiamo che riesco a inventare un simbolo nazionale che farà impallidire la Tour Eiffel.”)
Ecco a voi il Manneken Pis:
E ora ammiratelo con un costume da giaguaro, perché il Belgio è una nazione che si prende sul serio. Con una veloce ricerca su internet, potrete trovarlo anche in versione sassofonista, pompiere, rapper, Babbo Natale, poliziotto, dj e francese con baguette.
Con un simbolo nazionale del genere, le città belghe sentivano una certa pressione. Dovevano dimostrare di essere città temibili e potenti, nonostante la loro indipendenza fosse rappresentata da un getto di piscio. Per questo, il simbolo nazionale di Gent è un drago. Purtroppo però il drago in questione è cicciotto, pacioccoso, assolutamente non minaccioso e le sue fauci ardenti di fiamme somigliano al muso schiacciato di un maialino che si sta strozzando nel tentativo di ingerire un sasso. Ottimo lavoro, Gent.

Il Belgio è come quel bambino strano che a scuola si sedeva in ultima fila, non parlava con nessuno e dava testate contro i muri. Ogni tanto alzava la mano e se ne usciva con un commento completamente estraniante che lasciava la classe a metà tra il divertito e l’imbarazzato, ma lui li si rimetteva seduto tutto soddisfatto e cominciava a mangiarsi la colla. Se però lo avessimo tutti ascoltato con un po’ di attenzione, avremmo scoperto la sua imbattibile autoironia, il suo bizzarro ma efficace senso dell’umorismo, la sua incredibile capacità di creare una birra per ogni gusto esistente sulla faccia dell terra (e costruirci attorno un culto quasi mistico), la sua deliziosa cioccolata, il suo amore per il verde, per i parchi e per le biciclette, la sua vibrante vita notturna, la sua dedizione per i festival, i concerti e ogni sfumatura e accezione della parola party, la sua inaspettata vena artistica e uno splendore architettonico che sì, allla Tour Eiffel fa il culo per davvero.
Un pensiero su “Cronache fiamminghe #1: Perché il Belgio è un Paese vero”