La versione originale di questa canzone è coriacemente amareggiata. Leonard Cohen, più che cantare, sembra parlare. Il coro poderoso che si inserisce nel ritornello evidenzia per contrasto questo quasi disinteresse, aspro e amaro. Il ritmo è svogliato e crudelmente ironico.
La canzone di Cohen è legata alla spiritualità più direttamente di quanto non siano le versioni successive a essa ispirate. Anche se chi ascolta non sembra molto interessato (But you don’t really care for music, do you?), il secret chord del re Davide è il cardine della canzone. È su di esso infatti che viene costruito questo canto di Hallelujah, il quale, tuttavia, non è più l’originaria, totalmente entusiasta lode al Signore, bensì l’amara constatazione di aver perso uno stato di grazia per una beatitudine effimera.
Passeggiando di notte sulla terrazza della reggia, Davide ha visto Betsabea al bagno e ne manda il marito al massacro per prenderla in moglie. Si macchia di una colpa terribile per una ragione tanto terrena, al punto che Dio lo punirà uccidendo il figlio concepito durante l’adulterio, e il rimorso di Davide per la propria azione sarebbe alla base dello straziante Miserere. Un amore tanto carnale preferito all’amore – e alla legge – di Dio: Betsabea è il primo sintomo della caduta di Davide, così come Dalila sarà la rovina di Sansone. Your faith was strong but you needed proof / You saw her bathing on the roof / Her beauty in the moonlight overthrew you / She tied you to a kitchen chair / She broke your throne and she cut your hair / And from your lips she drew the Hallelujah. La beatitudine derivata dalla passione amorosa, l’Hallelujah che strappa dalle labbra dell’amante, in realtà non sono che la ragione della rovina: amerai il tuo Dio sopra ogni cosa, perché è questo l’unico amore che non ti ridurrà vuoto e allo sfascio.
Il tono amaro e di sfida della canzone si spiega quando viene detto You say I took the name in vain / I don’t even know the name / But if I did, well really, what’s it to you? / There’s a blaze of light in every word / It doesn’t matter which you heard / The holy or the broken Hallelujah, e ancora: I did my best, it wasn’t much / I couldn’t feel, so I tried to touch / I’ve told the truth, I didn’t come to fool you / And even though it all went wrong / I’ll stand before the Lord of Song / With nothing on my tongue but Hallelujah. Se si è mantenuto un centro, un barlume di saldezza (e chi canta l’ha fatto, benché non voglia ammetterlo apertamente: I don’t even know the name / But if I did, well really, what’s it to you?), la luce è rimasta presente anche nelle lodi spezzate che l’amore ha lasciato, e si potrà guardare al giudizio finale a testa alta, nonostante tutto sia andato male.
La prima cover di questa canzone – e quella in realtà ripresa da Jeff Buckley – è quella di John Cale. Il pianoforte insegue disperatamente la voce, che con quasi affannosa partecipazione rende conto della sofferenza di abbandonarsi a un amore ingannatore, tanto più per l’intensità con cui ci ha presi e poi rovinati. Il testo adottato da Cale è leggermente diverso da quello di Cohen (che ne aveva comunque adottato versioni diverse), e riporta a una prospettiva più terrena e molto meno positiva nelle proprie conclusioni. Se il modulo iniziale iniziale rimane invariato, alcune immagini – She tied you to her kitchen chair / She broke your throne and she cut your hair – vengono abbassate a una dimensione molto più domestica e quotidiana, quella di un amore tutto umano: Baby, I’ve been here before / I know this room, I’ve walked this floor / I used to live alone before I knew you. L’esaltazione dovuta all’amore, l’entusiasmo esultante – I’ve seen your flag on the marble arch – vengono ridotti in pezzi quando si comprende come tutto sia perduto. And love is not a victory march / It’s a cold and it’s a broken Hallelujah. Si può solo ricordare, remember when I moved in you / and the holy dove was moving too / and every breath we drew was Hallelujah. Ogni respiro era una lode a qualcosa di grande, l’amore era una beatitudine perfetta, che si è poi rivelata soltanto motivo di sofferenza. Quel qualcosa di splendido e di completo ormai non c’è più, la complicità si è persa: There was a time you let me know / What’s really going on below / But now you never show it to me, do you? Nell’altra persona c’è stato un cambiamento irreversibile, non si riesce più a comunicare. Il fatto di essere già stati soli prima di incontrarsi non significa che sarà più facile lasciare tutto. La disillusione non ha remore o pietà, e neanche un eventuale dio può consolare dalla scoperta che anche i rapporti più intensi e grandiosi possano ridursi a distruggere ciò che ci ha già fatto soffrire e lasciati senza più nulla. Maybe there’s a God above / All I ever learned from love / Was how to shoot at someone who outdrew you. L’altra persona non è un grido di speranza nella notte o qualcuno con una visione superiore, un essere migliore e santo e venerabile, l’amore non è che un canto di lode che è stato meraviglioso ma che non ha più passione, non è più innalzato con sentimento e perde il suo significato. And it’s not a cry you can hear at night / It’s not somebody who’s seen the light / It’s a cold and it’s a broken Hallelujah.
La versione di Cale è asciutta e matura nella sua semplicità ed estremamente sincera nella sua intensità. È la sofferenza con cui si è scesi a patti e che ci si porta dentro ogni giorno. Quella di Buckley, invece, la più famosa e conosciuta, ha tutto lo spessore di un’esperienza appena conclusasi. È struggente, ancora disperatamente immersa nell’amarezza di veder finire qualcosa che si credeva perfetto, arrabbiata per non aver compreso prima, per non essere stati capaci di vedere, per aver lasciato che la felicità ottenebrasse il nostro giudizio e ci lasciasse poi in balia di un dolore cui non eravamo preparati, cui non avevamo neanche pensato. Quella marcia di vittoria che tanto ci aveva esaltati e coinvolti si è ridotta a un canto vuoto e insensato, e i suoi brandelli sono ancora davanti ai nostri occhi.