Inebriante, musicale, tremendamente sensuale. Le curve dei tuoi fianchi sono come monili opera di mani d’artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella. Un ritmo ipnotico che si riversa e si avvolge in spirali, come i profumi di mirra, olii, incenso di cui è pervaso. Giardino chiuso tu sei […]. I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo con ogni specie d’alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi. Un tripudio di immagini, una canto che cresce, cresce, si fa sommesso, tentatore, sapori che si sciolgono sulla lingua, echi che si richiamano e si rispondono. Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.
Il Cantico dei Cantici si dipana a poco a poco, ma il suo argomento è chiaro fin dall’inizio: Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino. Si tratta di uno degli ultimi testi accolti nel canone biblico (II sec. d.C.), e risale forse al IV-III a.C. Non è quindi stato composto da Salomone, come vorrebbe l’incipit (ma a casi simili siamo abituati fin dalla questione omerica), bensì da un anonimo autore – o forse anche più autori – che ha fuso stilemi poi riconosciuti analoghi a quelli alessandrini (agli Idilli di Teocrito, per esempio) e temi e contenuti tipici della poesia mesopotamica, a partire dalla quale è probabilmente stato rielaborato.
Il Cantico racconta di un amore intenso tra una bruna Sulammita e un uomo, a volte identificato appunto con Salomone. Lei dovrebbe restare a guardia delle vigne, ma non riesce a stare senza vederlo. Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni, domanda lei; Se non lo sai, o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori, le viene risposto. Il loro è un amore di mancanza e ricerca: continuamente si trovano e si devono lasciare, stanno per incontrarsi e l’attimo svanisce, si promettono incontri e carezze. Mancanza e ricerca, perché niente suggerisce un matrimonio, e perché, nonostante un bisogno reciproco, è tutto un aspettarsi e darsi appuntamento, sperando che un giorno lei possa condurlo nella propria casa. Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. «Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore». L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: «Avete visto l’amato del mio cuore?». Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l’amato del mio cuore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice.
Più volte nella notte la Sulammita uscirà per cercare l’amato del suo cuore. Noi siamo trascinati con lei, presi dalla sua disperata ricerca, le auguriamo ogni volta di trovarlo. Siamo pervasi dalla stessa anticipazione, dalla stessa tensione, le ricche immagini che intensificano le sensazioni e si impossessano dei sensi. Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! È il mio diletto che bussa: «Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne». «Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?». Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta. Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello. Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non m’ha risposto.
È dalle parole della Sulammita, poi, che riceviamo i primi indizi della primavera, di un tripudio di fioriture in arrivo. «Il tuo palato è come vino squisito, che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti! Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me. Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze! Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho serbati per te». L’attesa per l’altra persona si intreccia quindi con l’attesa dello sbocciare dei fiori, del maturare dei frutti. L’amore dei due è circondato e si richiama costantemente alla natura, i momenti che passano insieme sono quasi sempre all’aperto e anche nella solitudine i profumi e le bellezze di un giardino possono evocare la persona amata. Anche il nostro letto è verdeggiante. Le travi della nostra casa sono i cedri, nostro soffitto sono i cipressi. O anche: nel giardino dei noci io sono sceso, per vedere il verdeggiare della valle, per vedere se la vite metteva germogli, se fiorivano i melograni. La ricchezza della rinascita e la fertilità della terra rispecchiano la naturale, intensa, fruttuosa passione dei due amanti.
Malata d’amore è la Sulammita. Ma così è anche per il suo uomo, cui lei ha rapito il cuore. Il suo uomo, che domanda alle donne di Gerusalemme di non destare la sua amata dal riposo. Il suo uomo, che la paragona a quanto di più bello c’è sulla terra e che attraverso le parole che le rivolge fa arrivare anche a noi l’intensità del suo amore. «Il tuo collo come una torre d’avorio; i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat-Rabbìm; il tuo naso come la torre del Libano che fa la guardia verso Damasco. Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come la porpora; un re è stato preso dalle tue trecce». Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! La tua statura rassomiglia a una palma e i tuoi seni ai grappoli. Ho detto: «Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri; mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva e il profumo del tuo respiro come di pomi». E ancora, la Salummita è bella come Tirza, leggiadra come Gerusalemme, terribile come schiere a vessilli spiegati. Il suo sguardo lo turba tanto che non è in grado di sostenerlo.
Ma è il sentimento della Sulammita a guidarci attraverso il loro amore, è il suo desiderio che ci svela quello di lui, è il suo parlare che fa nascere il dialogo. Sono le sue parole che riassumono l’intensità della loro passione: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo.



