Come le famiglie, anche le adolescenze felici, probabilmente, sono tutte uguali. Dopo aver letto L’acqua del lago non è mai dolce, però, non sono invece così certa che ogni adolescenza infelice lo sia a suo modo.
Dalla lettura, anzi, ho ricavato diverse linee di continuità con alcune delle grandi autonarrazioni al femminile in cui mi sono imbattuta negli ultimi anni: Sembrava bellezza, di Teresa Ciabatti (in concorso insieme a L’acqua del lago non è mai dolce al Premio Strega di quest’anno: ne abbiamo scritto qui) ma anche i romanzi-fiume di Elena Ferrante e la spietata dissezione di sé e della propria storia che si ritrova tra le pagine di Annie Ernaux (ne parlo qui).
Sorge allora spontaneo un dubbio: non si tratta, forse, solo di influenze reciproche, ma di un vero e proprio Zeitgeist sotteso a tutte queste storie di crescita spietata, di scoperta di sé contro un mondo crudo e ostile. Le protagoniste descrivono senza remore anche ciò cui siamo abituati a pensare come qualcosa di vergognoso: in questo caso, ad esempio, la durezza del contesto sociale che, anche se ci troviamo alla periferia di Roma, riecheggia l’atmosfera del rione napoletano in cui la protagonista dell’Amica geniale cresce tra forti difficoltà materiali.
Soprattutto, non temono di gettare in faccia al lettore le proprie bassezze e meschinità, di farsi vedere cattive. Gaia, protagonista di questo romanzo di Giulia Caminito, racconta senza farsi scrupolo della propria rabbia contro il mondo, una rabbia tale che la fa uscire di sé (smarginare, forse, un altro eco ferrantiano) e picchiare, distruggere, dar fuoco, sparare. Non ha paura di descrivere a cosa la spinge un desiderio di rivalsa ardente e mai sopito che la accomuna sia alla ormai nota Lenù sia alla voce narrante di Sembrava bellezza – un’altra donna che resta quasi anonima: a che serve il nome, il volto, sono le voci di una generazione.
Per chi, come me, ha vissuto l’adolescenza dopo il 2010, con Facebook e Whatsapp, è facile accomunare questi due racconti in un generico “prima di noi” la cui epitome è facilmente individuata nell’utilizzo del telefono fisso, anche se a dire il vero l’ambientazione di L’acqua del lago non è mai dolce è di almeno dieci, forse quindici anni successiva a quella del romanzo di Teresa Ciabatti. Qualche coordinata storica ci fa orientare, ma non possiamo capire davvero a fondo l’atmosfera di quegli anni: per noi, ad esempio, la Genova che lascia un segno profondo in Mariano, fratello della protagonista, non è un ricordo personale, ma una memoria recuperata da storie di altri, un racconto che ci arriva nelle cuffie bluetooth da un podcast di Internazionale.
Capiamo bene, però, il malessere, il senso di precarietà, il presagio che nel mondo non ci sia un posto per noi a funestare come una nuvola scura le giornate estive alla fine dell’adolescenza.
– Cosa ci fai con questa laurea? Cosa ci fai?
– Niente.
– Niente? Non esiste niente, con ogni cosa se ne fa un’altra, ora cerchi un modo, vai alla segreteria, vai dove devi andare, stai là finché non hai risolto.
– Non vado da nessuna parte, li odio tutti, rispondo e rivedo gli annunci affissi, i seminari, i numeri di telefono per l’affittacamere, gli schedari della biblioteca, i computer sempre occupati, le aule a semicerchio, i banchi estraibili che si incastrano, la carta igienica caduta nel cesso e bagnata, i roar delle centraline sul retro e mi ricordo una frase di quel matto di Samuele che per qualche motivo non ho mai dimenticato: il mondo sta per finire, la luna è caduta stanotte. In poche parole, non c’è niente da fare, ci si arrende, è la disfatta, ci hanno beffati.
Capiamo anche la necessità di afferrarsi tramite qualcosa (con la scrittura, o fotografandosi su Instagram, poco cambia) per paura che altrimenti scivoleremo via senza lasciare traccia (il terrore delle ragazze scomparse nel nulla, che tanto spesso ritornava in Sembrava bellezza, fa capolino anche in L’acqua del lago non è mai dolce). Sappiamo, soprattutto, che anche l’acqua del nostro lago è così: sembra dolce solo nelle sere di ebbrezza, in cui si può non pensare, e ritorna a puzzare di scarichi industriali già al mattino dopo.
Perché potrebbe vincere?
L’acqua del lago non è mai dolce è un romanzo che non ha paura di mostrare cosa significa guardarsi dentro, riconoscersi per quello che si è, venirci a patti. Potrebbe vincere perché ci insegna che a volte bisogna avere il coraggio (anche se la protagonista è reticente ad essere associata a questa qualità) di tuffarsi nel lago affrontandone il torbido ma senza per questo perdere la capacità di credere che, sotto alle alghe, ci sia uno splendido presepe sommerso.
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