Premio Strega 2021: Sembrava Bellezza di Teresa Ciabatti (Mondadori)

Tempo di lettura: 5 minuti

A proposito di memoria, di ciò che trattiene e di ciò che lascia andare. A proposito della sua arbitrarietà: non è vero che per istinto di sopravvivenza dimentichiamo quel che ci ha fatto male in quanto, se riportato alla mente, continuerebbe a rinnovare il dolore […]. Perciò, lettori, è falso che rimuoviamo i ricordi dolorosi. Andando contro alla schiera di psicanalisti che hanno tentato di indirizzarmi […], oggi io dico che la memoria va a caso. Così come l’immaginazione.

L’adolescenza è un tempo mostruoso e formidabile. Scelgo questi aggettivi per due ragioni: la prima, mettere a frutto, per una volta, la mia laurea in lettere classiche; la seconda, e più importante, per avvicinarmi già ad uno dei nuclei del romanzo di Teresa Ciabatti, Sembrava Bellezza. Già, perché «niente è come sembra», proprio come questi due aggettivi: dentro «mostruoso» c’è monstrum, ciò che è grottesco, sì, ma perché straordinario; e dentro «formidabile», una parola che suona così scintillante, c’è la paura, formido.

Nel romanzo, la protagonista e voce narrante riavvolge il filo che la porta a regolare i conti con la sé dell’adolescenza, intrappolata in un corpo sentito come inadeguato, da correggere ad ogni costo: mostruoso. Dall’altro lato della medaglia, precipita velocemente la vita formidabile della bellissima Livia, sorella della migliore amica Federica: precipita fisicamente, giù dal balcone di casa (l’episodio è avvicinato gradualmente, nel racconto, fino ad arrivarne al cuore a romanzo inoltrato), e così la bellezza diventa solo un guscio, un rivestimento a coprire il vuoto abissale della mente – un vuoto che incute davvero timore, ad osservarlo dall’esterno: la sola pietà concessa a Livia, ormai eterna ragazzina, è di non accorgersene, fluttuante com’è in un tempo senza storia, un eterno presente che, almeno, non lascia spazio al dolore.

Sembrava bellezza annoda insieme molteplici trame, una costellazione di percorsi fisici e mentali che si intrecciano per costruire il tessuto della vita della protagonista. 

La voce narrante (che rimane anonima), sua figlia Anita, Federica, l’«amica ritrovata», e la sorella Livia: sul romanzo si proietta l’ombra lunga della grande narrazione «al femminile». C’è innanzitutto l’amicizia-specchio, che richiama L’amica geniale: la protagonista e Federica hanno attraversato l’adolescenza in simbiosi, riconoscendosi l’una nell’altra. A fare da sfondo non l’indigenza del rione napoletano, ma, al contrario, il lusso della Roma pariolina, in cui esiste un altro tipo di miseria: quella interiore, del sentirsi brutte, invisibili.

Di Ferrante c’è anche altro: una madre da tenere nascosta, della quale ci si vergogna, che sia per l’andatura claudicante come la «geniale» Lenù o per il sorriso sdentato come nel romanzo di Ciabatti; e, soprattutto, il desiderio di rivalsa, ed una voce, quella narrante, che si è conquistata uno spazio per parlare di sé attraverso la scrittura solo dopo essere stata a lungo tra i reietti, gli emarginati – l’una relegatavi per povertà materiale, l’altra per povertà di bellezza. 

Anche nelle interviste riguardanti il romanzo, Ciabatti insiste sull’importanza di uno sguardo marginale: «è quello che mi ha reso scrittrice», ha dichiarato. Chiunque al liceo non sia stato tra i bellissimi della jeunesse dorée ci si può riconoscere: quanto tempo passato a sognare le vite degli altri! – come il deandreiano «matto», «gli altri sognan se stessi, e tu sogni di loro». Uno dei punti di forza del romanzo sta proprio nell’intelligenza di non romanticizzare l’«esclusa»: al contrario, la voce narrante ci porta a conoscere le proprie bassezze, meschinità, i livori e gli astii mai purgati. Questa, mi sembra, è anche la cifra della qualità di una scrittura autobiografica: saper ruminare nella fanghiglia putrida sotterrata dentro di sé come un rifiuto tossico, portarla alla luce, affrontarla. Cfr. anche qualche citazione di grande intellettuale che avrà espresso questo concetto meglio ed in modo meno grafico di me. 

Questa «scrittura-verità» è l’inno ad un (neo)neorealismo letterario? No, niente del genere. Anche perché di reale, qui, c’è ben poco; o meglio, la realtà, la verità sono in continuo mutamento, giocano a nascondino con la memoria e la sfuggono, le scivolano tra le dita. Il romanzo si apre con un monito: «I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro». Non c’è da dubitare della buona fede della voce narrante – ciascuno può raccontare soltanto la propria realtà (la propria versione, ricordate quella di Barney?); una Verità oggettiva ed incontrovertibile non la si trova neppure nei libri di storia (nel caso vi foste rifugiati in questa speranza). Più volte la stessa scrittrice ammette di non ricordare, di confondersi, forse: ma poco conta. Quello di cui va in cerca non è wie es eigentlich gewesen ist (e a questo punto ho smascherato definitivamente i miei studi storici), bensì di afferrare se stessa, com’era, come è diventata. Riappropriarsi di sé: «abbiamo solo la nostra storia ed essa non ci appartiene» (Ortega y Gasset, ma la citazione ovviamente non l’ho scovata io nel corso di dotte letture: la trovate come epigrafe a Gli anni di Annie Ernaux). Anche per noi lettori conviene allora lasciar perdere le teorie (e le ricerche Google: Teresa Ciabatti storia / Teresa Ciabatti intervista / Sembrava bellezza è una storia vera) e abbandonarci nel mare, dolcemente mosso, della memoria.

Perché potrebbe vincere: Perché parla a, e di, tutti noi: perché tutti siamo cattivi, e tutti tentiamo di redimerci, di riplasmarci in meglio nei ricordi; perché tutti abbiamo vissuto la crudeltà dell’adolescenza (patita e inflitta) e mentiremmo se dicessimo che è finita, si è dissolta lì; perché tutti abbiamo bisogno di affrontare lo stesso viaggio spietato ma rigenerante tra le pieghe della nostra memoria. 

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