Avrei voluto iniziare questa recensione con una descrizione della laguna che questo romanzo ci regala: da brava studentessa trasferitasi a Venezia per l’università non ho potuto fare a meno, leggendole, di commuovermi quel tanto, da sentire questo libro più mio di altri. Dopotutto, Malaguti ha la capacità di descrivere a parole sensazioni, che solo chi ha avuto la fortuna di visitare, o meglio di vivere e respirare, questo ambiente, ha provato:
E poi, all’improvviso, la laguna gli venne incontro. Era da poco passato il mezzogiorno, il sole era alto in cielo, ma l’aria era pulita, e lo scirocco increspava leggermente la superficie dell’acqua, incendiandola di scaglie di luce bianca, accecante. Ne aveva sentito parlare, della laguna, ma non l’aveva mai vista, solo qualche foto sui libri, una cartolina. La lingua di terra alla loro destra risaliva fino a perdersi dietro l’orizzonte: lì, questo lo sapeva per averlo sentito dire decine di volte da suo padre e suo nonno, c’era Chioggia, poi Pellestrina, e su, fino agli Alberoni, al Lido e poi Venezia… Venezia! Ma era lo spettacolo senza paragoni che gli si dispiegava davanti agli occhi a dargli le vertigini: erano vele, prima di tutto, decine di vele, di ogni colore, ampie minute, in fuga sull’orizzonte o vicine, in attesa alla chiusa, alcune inerti sugli alberi delle barche in stallo, altre gonfie, vibranti e tese alla brezza moderata che soffiava da sud-est… e poi barche! […] Su tutto, però, era l’acqua ad accelerargli la corsa del cuore. Era tanta, e quieta, e così diversa da quella dei canali e dei fiumi, dove pare quasi soffrire, stretta tra gli argini angusti. […] E poi era profumata, di un aroma magnetico e profondo, che prendeva al naso per poi scendere alle viscere. Non era semplice freschìn, il sentore di fossi e canali familiare a chiunque viva nella grande pianura, c’era anche la punta della salsedine, gusto salato di vita rapida e guizzante mescolato in strana alchimia con le note dolciastre e smaganti di alghe morte, di reliquie biancastre di lische e seppie che si puliscono e si consumano nel moto lento dei bagnasciuga limacciosi.
Alla fine, pare che io questa recensione l’abbia iniziata davvero con una descrizione della laguna e di Venezia, città magica e misteriosa per il protagonista di questo romanzo, Ganbeto, ragazzo cresciuto con un’unica certezza: da grande avrebbe fatto il barcaro, così come il padre e il nonno.
Tra le pagine, scopriamo e ricordiamo un altro mondo, antico e terribilmente affascinante, quello dei barcari, di chi naviga i fiumi fino al mare per trasportare le merci. Lo vediamo non solo attraverso gli occhi di Ganbeto, ma anche di quelli di Caronte, il burbero nonno, capitano della Teresina, l’instancabile (così come il suo capitano) burcio, con l’unico difetto di non riuscire a stare dietro ai tempi che corrono, ancorata a quel passato senza motori, dove gli unici alleati dei barcari erano il vento, e i cavalcanti, indispensabili per risalire i fiumi.
Il mondo che ci viene descritto, e che noi oggi abbiamo perlopiù dimenticato, di cui Caronte – impermeabile e contrario a qualsiasi tipo di novità, come il bagno in casa, la televisione e le barche a motore – si fa emblema, è destinato a scomparire, anzi, a mutare, proprio sotto gli occhi di Ganbeto, che nei primi capitoli afferma “che, soprattutto, non avrebbe mai fatto altro nella vita: il barcaro era l’arte per la quale sentiva di essere nato”. E che poi viene costretto, da tempi che non necessitavano più di barcari, a cambiare i suoi sogni e le sue ambizioni, a sostituire le ruvide assi della Teresina con le ruote di una Vespa.
Per questo forse sarebbe stato più opportuno iniziare così:
Ma ormai sa che non è vero, le cose cambiano. Anche quelle che sembrano dover durare per sempre scompaiono, macinate via da novità che a loro volta dureranno il tempo che devono durare, e poi saranno spazzate. Arriva il cambiamento, e subito tutti dietro. […] I cambiamenti bisogna seguirli, bisogna dominarli, possederli. Altrimenti anche tu vieni macinato via, assieme alle cose vecchie e ai quattro coglioni che si ostinano a difenderle.
Dopotutto questo è un libro che parla di cambiamento e della necessità di adeguarsi ai tempi se non si vuole rimanere indietro. Tuttavia, contemporaneamente, e in questo l’ho trovato straordinario, ci ricorda la bellezza della semplicità, dei sogni piccoli e realizzabili, della nostra terra e dei nostri fiumi, ci rammenta quella conoscenza che stiamo perdendo, quella che non ci viene insegnata a scuola, ma che è depositata nelle memorie dei nostri nonni, testimoni di tradizioni che ormai non conosciamo più, ma alle quali, se ne leggiamo o ne sentiamo parlare, ci sentiamo inevitabilmente attaccati, perché è da lì che veniamo e, in un mondo che non ci permette di fermarci, forse è lì che, a volte, vorremmo tornare.
Sono dunque due i piani e i mondi che ci vengono presentati da Malaguti, quello rapido e vorticoso del tanto discusso e acclamato progresso, il mondo dell’oggi, dove non solo non si è mai abbastanza veloci, ma bisogna anche saper anticipare i tempi; e quello lento del passato, in cui i tempi della natura dettavano il lavoro, quello delle tradizioni, che in maniera più o meno conscia sappiamo far da sostrato all’oggi, d’altronde “[…] è vero che tutto cambia, come l’acqua dei fiumi, che un giorno ride chiara e trasparente, l’altro ringhia nera e vorticosa. Ma è anche vero che le cose, per altra via, resistono e sono dure a morire, di nuovo come l’acqua, che resta sempre lei, e fa sempre lo stesso giro”.
Perché potrebbe vincere?
Perché ci costringe a fermarci, a riflettere sul tempo e sui cambiamenti che a volte avvengono troppo velocemente. Perché ci dimostra che non sempre si può essere padroni del proprio destino: il mondo cambia il suo corso di continuo e ci costringe a scelte di vita che non avremmo sognato o immaginato, ma che non per questo falliamo, non per questo non possiamo essere felici. Perché ci narra di un passato così vicino e così lontano, ci culla nelle acque dei nostri fiumi e dei nostri mari, e ci trasmette, con la ruvida dolcezza del dialetto veneto, un sapere che avremmo potuto perdere, ma che, invece, non abbiamo perso.
di Elena Colombo