Falung Gong e PCC: il secolare a ripresa del sacro

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25 aprile 1999: Jiang Zemin definisce pubblicamente il Falun Gong un “evil cult” (邪教) (Ownby, 2008, p. 110), e per questo socialmente pericolosa e destinata alla repressione. Questo breve saggio mira a dimostrare, nell’ambito reazione al Falun Gong, come la “retorica dell’eterodossia” sia tutt’altro che una novità per il panorama politico e religioso cinese, e come anzi risulti essere un retaggio dell’eredità imperiale.

Il Falun Gong è una scuola di qigong fondata da Li Hongzhi nel 1992. Durante gli anni 50, il PCC utilizzò il termine “qigong” per definire un insieme di pratiche fisiche e spirituali della tradizione cinese volte alla coltivazione del sé, con la più alta ambizione di ascriverle al ramo di una rinnovata medicina cinese che fosse in grado di competere con quella occidentale. Negli anni 70 si fece strada il cosiddetto “qigong boom”: secondo D. Ownby (2008, pp. 10-13), l’improvviso largo interesse per queste pratiche di auto-coltivazione costituì un momento di distensione dopo un periodo di costrizioni e sacrifici collettivi, soprattutto nell’ambito spirituale, quale fu la Rivoluzione Culturale. Questi movimenti di qigong sempre più popolari iniziarono a costituire una minaccia agli occhi del PCC, pur non prefigurando nessun obiettivo politico alla base (Ownby, 2008, p.13). La criticità della situazione cinese spinse Li Hongzhi alla fuga negli USA nel 1995; dall’esilio egli pubblicò il Zhuan Falun, testo di riferimento del Falun Gong che accentuò il carattere sacrale del movimento, incrinando ulteriormente i rapporti con il PCC. I praticanti, sempre più insofferenti alle limitazioni imposte dallo stato, organizzarono una protesta pacifica a Zhongnanhai (Pechino) il 25 aprile 1999. Il governo dell’allora presidente Jiang Zemin scatenò una violenta repressione, etichettano il Falun Gong come “eterodossia” (邪教)

Questa retorica dell’eterodossia affonda le sue radici nel panorama religioso della Cina imperiale. Secondo l’analisi di Goossaert e Palmer (2011, pp. 20-25), focalizzata principalmente sulla tarda epoca Qing, il sistema religioso cinese ruotava attorno ai “tre insegnamenti” (三教: Confucianesimo, Buddhismo e Taoismo), i quali coesistevano in un contesto di pluralismo, ma non sincretismo, religioso. Al fianco di questi tre insegnamenti, i culti locali rappresentavano il vero cuore della spiritualità cinese: tecniche di auto-coltivazione e meditazione, culto degli antenati e venerazione di divinità locali erano realtà molto diffuse e radicate nella Cina dell’epoca imperiale. In un contesto così complesso, l’imperatore, autorità religiosa suprema legittimata dal Mandato del Cielo (天命), aveva facoltà di gestire il dibattito religioso. La sua azione era principlamete volta alla protezione dei sanjiao e al controllo dei culti locali, i quali potevano essere giudicati ortodossi (zheng), e quindi legittimi, oppure eterodossi (xie), e quindi non autorizzati alla pratica. La dualità “ortodossia-eterodossia” quindi era lo strumento retorico attraverso il quale l’imperatore decideva, “on the basis of his own judgement”, se leggitimare o meno un gruppo religioso (Goossaert e Palmer, 2011, pp. 20-27).

Dopo il crollo della dinastia Qing, il Partito Nazionalista, con il duplice obiettivo di distaccarsi dal ruolo di autorità religiosa dell’imperatore e di costruire una coscienza nazionale cinese, abbandonò la dicotomia arbitraria di ortodossia-eterodossia in favore di categorizzazioni occidentali quali relgione e superstizione, ritenute più “scientifiche” (Goossaert e Palmer, 2011, pp. 50-51). La ripresa del discorso di eterodossia, in occasione della repressione dei praticanti del Falun Gong, sembra rappresentare il retaggio di quel paradigma imperiale solo apparentemente superato nel XX secolo.

Come Goossaert (2005) fa notare a più riprese, la dicotomia ortodossia-eterodossia, che in epoca imperiale l’imperatore impiegava legittimamente in quanto autorità religiosa, stride con il modello secolare proposto dal PCC. L’esplicita ripresa della retorica imperiale spinge D. H. Bays (2004, pp. 26-27) ad azzardare un parallelismo tra il ruolo del Ministero dei Riti in epoca imperiale e il “Religious affairs Bureau” (国家宗教事务局), benché Goossaert (2005) contempli questa tesi con scetticismo.

In conclusione, sebbene il fiorire del dibattito religioso in Cina abbia simbolizzato una svolta dalla furia iconoclasta della Rivoluzione Culturale e abbia indubbiamente arrecato benefici fedeli e praticanti cinesi, le autorità statali cinesi sembrano comunque intenzionate a ribadire il proprio controllo e la propria competenza anche in campo religioso, quantomeno nei momenti in cui la stabilità politico-sociale appare messa in discussione. Per garantire coesione sociale, la leadership comunista non sembra dunque disdegnare, almeno per quanto riguarda il contesto analizzato, il recupero della dicotomia di ortodossia-eterodossia di origine imperiale, richiamando il paragone avanzato da Bays (2004, p. 36), secondo il quale “today’s leaders sometimes sound downright archaic – rather like the Qianlong emperor – in denouncing and proscribing certain movements as evil cults”.

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