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Virago è un termine composto del sostantivo vir, uomo, e del verbo agere, fare, agire. Designa quindi una donna che “si comporta da uomo”.
Per la verità l’espressione è stato utilizzata in questa accezione più dai moderni che dai latini che la coniarono: in letteratura se ne trovano ben poche attestazioni e perlopiù sono riferite a guerriere mitologiche o divinità. Ad esempio, Ovidio e Stazio, due poeti vissuti rispettivamente nella seconda metà del I secolo a. C. e del I secolo d.C., definiscono virago Minerva, dea delle virtù guerriere; da Seneca invece l’appellativo è conferito alla dea della caccia, Diana. Le attestazioni di virago non vanno poi molto oltre, con un singolo utilizzo del termine da parte del commediografo Plauto (un autore che si colloca ai primi albori della letteratura latina) in qualità di aggettivo (per descrivere un’ancella forte e robusta).
Insomma, potremmo chiuderla qui (con quest’articolo e con le donne ‘virili’ di Roma antica)?
No di certo: virago è solo uno dei tanti modi di descrivere i comportamenti extra mores delle donne. Con gli altri che vedremo condivide la prospettiva sui rapporti di genere: secondo i romani, infatti, c’erano “cose da uomini” e “cose da donne”, e alle seconde era riservato un ruolo soltanto nella sfera privata, non certo nei teatri pubblici della politica o della guerra.
Ora, i più acuti (o polemici) tra i lettori avranno già la prima questione da sollevare: milleduecento-e-rotti anni di storia romana, e in una frase pretende di riassumere la storia dei rapporti tra generi?
Lungi da me una simile hybris, ma (purtroppo) almeno a grandi linee le cose stanno proprio così: infatti i modelli di comportamento femminile non cambiarono di granché nel corso della storia romana, adattandosi, al più, alle mutate condizioni sociali. Per fare solo un esempio, il lanificium (la filatura della lana) rimase una virtù delle donne “rispettabili” dalle origini di Roma fino all’età imperiale.
Molto meno rispettabili erano invece le virago e, non a caso, Plutarco, nel descriverci una donna che a pieno può essere ascritta a questa categoria – Fulvia, la moglie del triumviro Marco Antonio -, ci riporta proprio che “non badava a filare la lana e alle faccende domestiche”.
Fulvia fu una delle protagoniste della difficile epoca che segnò il passaggio dalla repubblica romana al principato: come moglie di Antonio, ne condividette la vita e le azioni politiche. Le fonti ci hanno tramandato di lei un’immagine di donna crudele: Cassio Dione racconta che fu al fianco di Antonio nel corso della decimazione delle truppe insubordinate che il triumviro ordinò nel 44 a.C., e che assistette alle esecuzioni tanto da vicino che anche lei si macchiò di sangue; Plutarco che, quando il marito si fece portare la testa dell’odiato Cicerone, la donna si concesse il macabro divertimento di trafiggere con i propri spilli la lingua che aveva pronunciato le orazioni Filippiche contro il marito. Certamente si tratta di caricature esagerate di proposito, con la volontà di screditare anche Antonio, uno sconfitto della storia con cui la storiografia non è certo stata clemente; ma una ragione di discredito nei confronti di Fulvia fu certamente anche il suo agire al di fuori degli ambiti riservati alle donne. Alla fine del 41 ebbe perfino l’ardire di mettersi a capo di un esercito, insieme al cognato Lucio Antonio; lo storico Velleio Patercolo, nel raccontare l’episodio, ha cura di specificare che Fulvia, che secondo Cassio Dione in quest’occasione avrebbe girato armata e pronunciato arringhe alle sue truppe asserragliate a Perugia, “di donna non aveva altro che il corpo”.
L’ardore bellico, infatti, era territorio maschile; ad esempio, del termine dux (condottiero) esisteva certo anche la forma femminile, ma se riferito ad una donna sembrava aver bisogno di ulteriori specificazioni. Così l’eroica Clelia, catturata nel corso dell’assedio di Roma da parte dell’etrusco Porsenna, la quale aveva guidato altre prigioniere alla salvezza attraversando a nuoto il Tevere sotto le frecce nemiche, fu dux agminis virginum (cioè “guida di una schiera di fanciulle”); e Didone, fondatrice di Cartagine, fu consegnata alla posterità dall’espressione virgiliana dux femina facti (un “capo-donna dell’impresa” di condurre il suo popolo al sicuro dalla tirannia del fratello Pigmalione).
Non soltanto ardore bellico, ma anche intraprendenza: come quella di Sempronia, una nobile che prese parte alla congiura di Catilina nel 63 a.C., dotata di “virile audacia” secondo lo storico Sallustio, o di Mesia Sentina, che si auto-rappresentò in tribunale e, per questo motivo, di lei ci è rimasto che “aveva un animo maschile”, pur “sotto spoglie femminili”.
Delle virago, infatti nessuno mette in dubbio le caratteristiche biologiche ed esteriori femminili, che però restano soltanto un ‘involucro’ per un animo che di muliebre non ha nulla; della stessa Sempronia, per esempio, Sallustio racconta anzi che era una donna raffinata, “anche più del necessario”. Nessuna speranza invece per la povera Fulvia, cattiva e pure brutta, con una guancia più gonfia dell’altra (o almeno, così dice Svetonio).
Un’ultima considerazione: che senso ha, oggi, ricordarsi di queste donne vissute più di duemila anni fa? Abbiamo qualcosa da impararare da loro?
Eva Cantarella le ha definite il nostro “passato prossimo”; prossimo, e non remoto, perché anche oggi i rapporti di genere continuano a segregare ruoli e atteggiamenti secondo le categorie di maschile e femminile. E se dal passato prossimo siamo arrivati al presente, è stato grazie ad un lento e continuo lavorio silenzioso di sconfinamento dai margini di questi modelli: è stato anche grazie a Clelia e a Didone, a Fulvia e a Sempronia, e a tutte le altre che sono state agentes (stavolta, senza il prefisso vir!) nella storia.