2. Il gigante sepolto

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Enrico VIII Tudor fece costruire e restaurare vari palazzi. Tra questi, Nonsuch Palace ebbe una grande fama. Costruito nel 1538 per eguagliare le opere architettoniche di Francesco I (re di Francia), assunse il nome Nonsuch: “senza eguali, senza paragoni”. Il palazzo ebbe vari proprietari. Nel 1670 Carlo II lo donò all’amante, che lo fece abbattere nel 1682. Ad oggi, di Nonsuch restano alcune testimonianze scritte e iconografiche e piccole parti di fondamenta e mura.

C’era una volta re Enrico il vecchio, che regnava su un’isola fredda e nebbiosa, viveva in un castello umido e buio, indossava un pezzo di pelliccia sotto i vestiti per attirare le pulci. Enrico il vecchio aveva due figli: Arturo il maggiore, pallido e biondo come un filo di paglia, ed Enrico il minore, roseo e biondo come l’alba.
Arturo il maggiore, com’è sempre stato, era l’erede di re Enrico: aveva una moglie spagnola e un piccolo castello in Galles. Ma un brutto giorno Arturo il maggiore, pallido e biondo come un filo di paglia, si ammalò e morì. Enrico il minore, che si preparava a diventare cardinale, prese il suo posto, il suo titolo, la sua moglie spagnola, e quando Enrico il vecchio morì, diventò re.

C’era una volta re Enrico il giovane, che regnava su un’isola fredda e nebbiosa, viveva in case di mattoni rossi e bianchi, indossava braghe aderenti e corsetti di velluto. Aveva molti desideri: voleva condurre l’esercito sui campi di Francia, scrivere poemi e trattati, indossare gli abiti più belli, essere il re più cristiano di tutti. Soprattutto voleva essere amato: l’amato figlio del Papa, l’amato re del suo popolo, l’amato marito di sua moglie, l’amato padre di suo figlio.
Ma sua moglie, la spagnola che era stata di Arturo e che stava invecchiando, gli aveva dato solo una bambina con gli occhi grigi. Il figlio che non c’era mise una crepa fra Enrico e sua moglie, fra Enrico e il Papa. Il regno tremava.
Re Enrico il giovane, che era stato Enrico il minore, roseo e biondo come l’alba, prese il toro per le corna. Scacciò la moglie spagnola, chiuse le porte agli emissari del Papa e prese una moglie scura come la notte, che gli diede una figlia con i capelli rossi.

C’era una volta re Enrico il grande, che regnava su un’isola fredda e nebbiosa, aveva perduto una terza moglie bianca e rotonda come la luna, e piegava il destino tra le mani. Enrico il grande aveva tre figli: Maria la maggiore, nervosa e grigia come una foglia di salice, Elisabetta la mezzana, rossa e nera come un diavolo, Edoardo il minore, fragile e adorato, destinato a diventare re.
Enrico il grande volle costruire un palazzo, così grande e magnifico da non avere eguali, e lo chiamò Nonsuch.

Nonsuch aveva pareti azzurre come uova di pettirosso, torri di ghiaccio e ragnatela, finestre splendenti, stanze per il ballo, per il tennis. Aveva un parco enorme, ricco di cervi, alcove segrete e un palazzetto fatto di fronde e tronchi, pieno di uccellini cinguettanti.
Enrico il grande invecchiò e morì, ma Nonsuch rimase.

C’era una volta Nonsuch, che aveva un salone tutto d’oro. Nelle sue stanze viveva una folla variopinta, donne e uomini vestiti di rosa carnicina, giallo calendula, verde bruno, che portavano con loro scimmiette, cagnolini, servi rumorosi. Su di loro regnava Elisabetta la regina con i capelli di bronzo e le labbra di sangue, che era stata Elisabetta la mezzana, rossa e nera come un diavolo.
Gli uomini e le donne ballavano nel salone, le candele splendevano come stelle, e fuori la neve vorticava e si appoggiava con dita curiose alle finestre.
Elisabetta la regina invecchiò e morì, ma Nonsuch rimase.

C’era una volta Nonsuch, che aveva le finestre spente, le stanze vuote, passava di mano in mano e invecchiava, triste. Il popolo guardava le sue pareti azzurre e raccontava storie. Nonsuch era come un drago delle antiche leggende, che aveva perduto il suo fuoco ed era morto, e di lui rimaneva soltanto il grande corpo trasformato in pietra.
Il palazzo appartenne a re Carlo l’assassinato, poi ai ribelli, poi a re Carlo il secondo, che guardò il suo scheletro e ne provò disgusto e lo regalò alla sua amante, Barbara senza corona.
Barbara senza corona giocò con Nonsuch, perdette i suoi soldi. Chiamò gli operai con i martelli e le asce, e ruppe le ossa di Nonsuch, ridusse in polvere le sue mura azzurre, smantellò la sala da ballo, la sala per il tennis. Barbara senza corona e gli operai se ne andarono. Le fondamenta di Nonsuch rimasero sole, sanguinanti, poi gli alberi e l’erba le ricoprirono, la terra le prese e le nascose nel suo grembo.

C’era una volta Nonsuch, ora ci sono le sue fondamenta. Ma quelle povere pietre ricordano le mura azzurre come uova di pettirosso, le finestre scintillanti, il salone da ballo e da tennis. Ricordano Elisabetta la regina, e anche se dicono di lei che fu grande, magnifica, splendente, le pietre sanno che aveva la bocca larga, rossa come sangue. Ricordano Enrico il grande, e anche se dicono di lui che fu un satiro, un talpone, un vecchio grasso, le pietre sanno che era roseo e biondo come l’alba, che prendeva il destino con le mani ed era un sole sfolgorante.

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