La copertina era di quelle morbide, monocromatiche, con il titolo in rilievo. Tenere in mano quel libro equivaleva a sentirne coi polpastrelli l’animo profondo. Non era una lettura facile, lo ammetto; ci si muoveva a fatica tra quelle frasi increspate, costantemente sorpresi dalla punteggiatura tortuosa.
S’intitolava La disparition. Lo scrisse un francese, Perec. Cognome facile da pronunciare, testo difficile da leggere.
Come sono finito qui? Nel buio della mia stanza, con un libro che pare quasi accecante, troppo bianco nella quiete delle tre del mattino? Perché proprio La disparition, perché Perec?
Un libro sperimentale, figlio dei trasgressivi anni Sessanta, scritto senza la lettera e. No, non sto scherzando: un intero romanzo francese senza la vocale più importante dell’alfabeto. Un romanzo senza parole al femminile, senza il settanta percento dei verbi, senza il plurale e la paratassi. Come se in Italia qualcuno provasse a scrivere un giallo senza la lettera a.
È la mia ultima notte sull’isola. Tre del mattino, un libro in mano. Lieve malinconia. Mi sento come un attore che recita la sua ultima commedia. Un po’ come Molière, che morì in scena mentre incarnava uno dei suoi personaggi.
La 133 è silenziosa. Un vero e proprio utero letterario, una gemma di quattro metri per quattro dove il mondo esterno non può venire a reclamarmi. È l’ultima notte lì dentro, penso. Poi si esce nel mondo vero. Assieme al romanzo di Perec, che scorre veloce sotto i miei occhi, finisce anche la vita da studente. Basta goliardie, basta divertimenti, basta facili illusioni.
La disparition sarà il mio ultimo romanzo letto da fuori sede. Quest’impressione dà una pennellata di malinconia alla mia notte solitaria. Le prime luci dell’alba – le quattro? le cinque? – mi sorprendono non poco: rimango concentrato fino all’ultimo capitolo, fino all’ultimo sospiro senza e. Poi chiudo il libro, assalito da improvvisa stanchezza: è come se sentissi su di me tutta la fatica di Perec, lo sforzo sovrumano di storcere una lingua per assecondarla ai propri fini, dimostrando di possederla senza esserne posseduto.
Ripongo il libro, il sole è già ben visibile. Condizione paradossale: il mio cervello è prostrato, implora pietà; il mio corpo, invece, avverte i raggi del sole e si sente in dovere di produrre, di far qualcosa. In altre parole, sono i sintomi dell’insonnia. Mi tuffo nel letto con la forza della disperazione, mi dimeno come un pesce preso all’amo, e alla fine mi rassegno.
Passo in bagno, mi rassetto i capelli, mi guardo allo specchio. Mi pare d’esser gonfio, irriconoscibile, con gli occhi rossi come se avessi bevuto troppo.
Rimango seduto per un po’ sul bordo del letto, ottundendo la mia mente con le facezie dei social. Poi mi convinco che tanto vale dare un senso a quella giornata, e che vagabondare per Venezia non è poi un’idea così brutta.
Esami finiti, tesi sottovuoto, pronta a metà; ho ben pochi impegni, in questo preciso momento della vita. Posso permettermi il lusso di vivere. Scendo dal primo piano di Maestrale e mi dirigo all’imbarcadero. Solita attesa del 20, il primo, all’alba, alle sette. Io e il vaporettista a farci compagnia col desolante silenzio delle mattine estive. L’approdo a San Zaccaria. La città deserta, surreale, assonnata. Pochi veneziani che si aggirano quasi di soppiatto, con la paura di svegliare la laguna. Raggiungono i negozi e le botteghe, guardano torvi le pietre dure sotto i loro piedi.
Misuro a lunghi passi tutta Piazza San Marco. È vuota, conserva un fascino antico, è rivestita di una strana luce opaca. Quando poi i Mori cominciano a suonare il mattutino ecco che sorrido. Con una brezza delicata sul viso, penso che quel momento, quel preciso istante di pura poesia, valga tutta l’insonnia del mondo.
Le ore corrono veloci. Si fanno le dieci, e la città pare stralunata. Tarda a riempirsi, la povera Venezia. Dove sono i turisti pronti al loro assalto quotidiano? Dove sono i venditori ambulanti, gli esercenti improvvisati, gli scolari chiassosi? Attorno a me ben poche persone. Hanno negli occhi una strana angoscia.
Abbandono la piazza con una strana inquietudine addosso. Mi sposto quasi istintivamente verso Rialto. Non c’è nessuno. Il sestiere attorno al ponte sembra un gigantesco museo degli orrori. Mentre le luci elettrificate animavano le vetrine, i negozi rimangono chiusi. Le calli sono vuote come se ci fosse stata l’apocalisse; le porte di tutti i bed and breakfast paiono sigillate ermeticamente.
Di tanto in tanto, qualche signora spaurita affretta il passo non appena incrocia la mia figura; in lontananza, il vociare di un gruppo di operai con la loro inconfondibile erre intorbidita dalla laguna. Dicono cose del tipo «Mah, non saprei dire…» oppure «Io non ci speravo quasi più», ma tutto è confuso dalla frenesia, dalla concitazione con cui si parlano l’uno sopra l’altro.
Mi arrampico fino alla sommità del ponte di Rialto, e guardo il mondo attorno a me. L’opulento Fondaco dei Tedeschi è perfettamente illuminato, ma vuoto come un uovo dischiuso. Le strade dell’Erbaria sono desolanti.
Lieve momento di sconforto. Sistemo i capelli. Che diavolo è successo a Venezia?
Scendo dall’altra parte, diretto ai sestieri meglio conosciuti dagli universitari. Attorno a me non c’è più nessuno; presenze appena accennate dietro i portoni di legno, sospiri nascosti dalle tende delle finestre, un generale senso di smarrimento.
Verso mezzogiorno ho l’impressione di esser l’unico rimasto in città. Me ne sto in campo San Polo quando maturo la convinzione di girovagare dentro un vero e proprio deserto urbano. I pochi volti che avevo individuato nel corso della mattinata erano spariti del tutto. Ci sono solo io. Che diavolo è successo? Ripenso al romanzo che ho letto. La disparition. Fitta di emicrania lungo la tempia sinistra. La scomparsa. Vuoi vedere che, dopo la e francofona, sono sparite tutte le ingombranti e di Venezia? Acute, gravi, circonflesse, con dieresi, senza dieresi; non c’è più nessuno.
No no, questo è il ragionamento perverso di un cervello troppo stanco. Sciocchezze. Eppure ripenso a Perec, alla sua abilità nel distorcere la lingua. Forse qualcuno ha fatto la stessa cosa con la realtà.
No, no, mi dico. Questo non è il fottuto Fight Club, dove non si capisce cosa sia reale e cosa no. San Polo è qui, le pietre di Venezia sono dure e vere, posso toccare l’acqua, entrare nelle basiliche, sfondare le vetrine. Sto sudando, sento la schiena bagnata. Devo pensare lucidamente.
Mi guardo intorno. Respiro affannoso. Penso. Dato di fatto: i turisti non ci sono più. Altro dato di fatto: i veneziani non si fanno trovare. Non ho chiesto io di giocare a nascondino. Ho paura. Mi sento un corpo estraneo, un virus che sta per essere espulso dal deserto di Venezia.
Cammino ancora. Giro a vuoto, senza quasi respirare. Mi sembra di vivere in un’altra epoca, in una città gelosa, che ha ammazzato tutti i suoi inquilini e vuole vivere in pace, piena di carcasse, sazia di sangue. La prospettiva mi angoscia. Ogni volta che giro l’angolo, temo che la città mi possa inghiottire, spedendomi all’inferno, sott’acqua, o dove diavolo ha mandato tutti i suoi visitatori.
Arrivo in Campo Santa Margherita. È vuoto. Gli alberi oscillano al sole. Ci sono dei giochi di luce affascinanti, che non avevo mai colto prima. Tutto è opaco, avvolto in una strana atmosfera traslucida. Sembra di respirare l’aria delle poesie di Montale, rarefatta e pesante allo stesso tempo. Il magone allo stomaco è peggiorato, comincio davvero a temere per la mia vita. Vuoi vedere che faccio la fine di tutti gli altri? Poi, all’improvviso, una presenza umana.
In fondo, vicino alla bandiera che commemora i caduti, c’è il solito bancone del pesce fresco. Un uomo in grembiule se ne sta lì, con le braccia conserte, assediato da un’orda di gabbiani grossi quanto dei cani lupo. Vinco il mio terrore e mi avvicino. Se non gli parlo rischio di impazzire. Quello rimane lì, mi squadra da testa a piedi. Mi presento, lui fa lo stesso. Si chiama Guido, mi dice. Guido Morselli. Il nome non mi è nuovo. Ha sessant’anni e non pare per nulla sorpreso da ciò che abbiamo intorno.
Gli chiedo dove siano tutti. Lui risponde laconico: «Finalmente».
Io non capisco. Ripenso a Perec, gli occhi mi bruciano, la città è vuota e martoriata dal sole. Il silenzio di Venezia, che prima m’era parso affascinante, ora mi spaventa. Non lo posso più confrontare al chiasso colorato dei turisti. Non lo posso più innalzare a feticcio contro la baraonda policromatica dei visitatori globali. Forse era quello strepitare illogico che lo rendeva meraviglioso. Nient’altro.
Ora c’è un vuoto che mi fa piegare in due dall’angoscia. Ma il signor Morselli, al mio fianco, se ne sta ben ritto e tranquillo, quasi soddisfatto dallo stato delle cose. Gli chiedo se sa qualcosa di più. Lui risponde brevemente: «Alla fine, se ne sono andati».
Non ci vuole un genio per capire a chi si riferisca. Parla dell’umanità che da decenni affolla la laguna. Solo ora, nella solitudine di Campo Santa Margherita, mi rendo conto di quanto Venezia sia già morta. Sotto il caos quotidiano, la città non esiste più. Morselli e pochi altri veneziani si sono rinchiusi nelle loro case, pronti al lungo requiem. Suona l’ultimo atto. Per anni ci siamo illusi di poterla salvare. Io per primo, con poche parole sui social, ho vanamente sperato di poter fare la differenza. Abbiamo provato a rianimare un cadavere. Accanimento terapeutico.
La stanchezza e l’odore di morte che si respira in giro mi costringono a piangere. È un pianto lucido, rassegnato, tremendo. Pare il pianto di un suicida.
Abbandono il Campo e raggiungo le Zattere. Non c’è nemmeno l’ombra di un universitario, e mi chiedo che cosa ci faccio io qui, e perché non sono svanito nel nulla come tutti gli altri. Forse mi ha salvato Perec, magari è solo l’insonnia. Morselli è sparito. Forse è tornato a casa, o in Paradiso, o chissà dove. In lontananza, qualcuno si mette a suonare una tromba militare. Produce il suono più struggente del mondo. È il silenzio per i caduti. Mai definizione fu più appropriata. Siamo davvero caduti. E con noi, anche la città è caduta.
Sono rintronato, terribilmente triste, non so se mi riprenderò. Mi siedo sul bordo della riva, guardo il canale della Giudecca. È piatto, cristallino, un gigantesco smeraldo. Pare un piccolo oceano vergine, mai solcato dagli uomini.
Ritorno a San Servolo con una faccia che non si leva di dosso l’orrore più genuino: labbra lievemente contratte, occhi sbarrati, narici dilatate.
La sera, il vaporettista mi accoglie senza neppure fare domande. Non ho il coraggio di rivolgergli la parola; impazzirei. Voglio solo che quella giornata finisca.
L’isola è deserta, ci sono solo io. O almeno così sembra. Rientro in camera, sento la testa avvolta da cento lampi di emicrania. L’uragano della stanchezza si abbatte su di me tutto d’un colpo. Devo assolutamente dormire. Mi schianto sul letto, a faccia in giù, col naso schiacciato. Non proprio una fine gloriosa, penso. Non sono mai stato così tanto spaventato in vita mia.
La mattina successiva, la sveglia suona alle nove. Allungo una mano sul comodino per spegnerla, e mi imbatto nella copertina bianca del libro di Perec. La disparition. L’avevo lasciato lì? Impossibile ricordarlo, soprattutto prima di bere il caffè. La scomparsa, penso. Mi alzo a fatica. Soliti gesti automatici. Apro la finestra. L’isola è piena di vita. I giardinieri curano le nostre mille varietà di piante, e gli studenti fanno avanti e indietro diretti chissà dove. Si sente un buon profumo di erba tagliata.