Un qualche tecnocrate contemporaneo dell’istruzione ha scritto ultimamente, col linguaggio della soluzione facile che ormai ha invaso la nostra vita quotidiana, un qualcosa del genere: what’s important is not what you learn, but what you do with what you learn. Che ormai l’educazione sia diventata un mezzo, per dirla con un eufemismo, già lo sapevamo. Lo sanno tutti: dalla feccia classista dei licei classici italiani, a Bill Gates, che con i suoi 1.7 miliardi ha promesso di “mettere a posto” (to fix) l’istruzione pubblica negli Stati Uniti. Lo sanno, soprattutto, i tecnici dell’industria globale dell’educazione, quella delle certificazioni d’inglese, dei “global university rankings”, e dei test PISA che ci dicono chi sono gli studenti più preparati del mondo o che dovremmo tutti guardare alla Finlandia come esempio di istruzione efficace del ventunesimo secolo. Valutazione, monitoraggio, osservazione, evidenza, dati, efficacia, mercato, budget e tagli: il vocabolario della conoscenza del nostro tempo. Il vocabolario vuoto e spersonalizzante del Neoliberismo, che ha fatto dell’istruzione un servizio dal quale trarre profitto a tutti i costi: paradossalmente, a costo della qualità dell’apprendimento (what you learn), dei diritti e dell’autonomia dei maestri e dei professori, e di quella libertà e creatività, di quella solidarietà nell’apprendimento, di quell’immaginazione che ti riconcilia con la vita quando pensi che in una sola giornata, in un liceo classico ma per niente classista, passavi da Pirandello a Calvino, da Platone a De André senza nemmeno rendertene conto (perdonatemi il momento nostalgico). Tutto questo, lo sapevamo già. E lo sappiamo soprattutto noi giovani, i “cittadini del mondo”, poliglotti, sempre attenti alle nuove tendenze, raffinati nei gusti e acculturati, un po’ radical chic, un po’ cosmopoliti, un po’ di tutto e niente, ma forse consapevoli delle competenze che quest’entità superiore ma sconosciuta – IL MERCATO – richiede.
Quello che forse non sappiamo, o di cui non ci rendiamo sempre conto, è che oltre l’industria dell’istruzione globale, oltre Bill Gates, Zuckerberg, e le loro magnanime aspirazioni filantropiche, c’è l’educazione internazionale, un modello educativo che sfrutta il raggio d’azione della globalizzazione per criticarla, per metterne a nudo le contraddizioni più banali e gli errori più grandi. L’educazione internazionale condanna quell’élite globale che dall’alto della sua “competenza” o della sua montagna di dollari ci viene ad insegnare come mettere posto “il sistema” in crisi. È il modello della pedagogia critica di Paulo Freire e Henri Giroux; è il modello che ispira la battaglia degli studenti di Phoenix che lottano per proteggere il proprio programma di studi interetnico; che dà una solida base teorica alle iniziative volte a promuovere tolleranza, diversità ed inclusione dentro e fuori le istituzioni; che ispira l’educazione civica globale, l’educazione alla sostenibilità ambientale e ai diritti umani; che dà voce a coloro che lottano affinché tutti abbiano accesso a un’istruzione di qualità; che difende l’università dagli attacchi dei tecnocrati, delle “big corporations”, e dei politici, per renderla il centro dello sviluppo indipendente di saperi creativi, capaci di immaginare criticamente, di domandare, di mettere in discussione, di reclamare, di accogliere. L’educazione internazionale non è un’utopia; è l’altra faccia, reale, concreta, attiva, di questa globalizzazione emancipatrice e reazionaria, progressista e conservatrice, capace di mettere in moto speranze e attivismo da una parte, speculazione e inerzia dall’altra.
Non avendo un modo migliore per esprimerlo, riporto un’osservazione di un’amica, che nel commentare una delle tante contraddizioni della controversa politica statunitense, mi dice: “a volte non so se sia più americano difendere disegni criminali, interni e internazionali, o metterli in discussione”.
In un paese come gli Stati Uniti, caratterizzato da abissi di inciviltà irrazionali (il possesso delle armi, tra gli altri) e da esempi straordinari di progressimo e attivismo, le contraddizioni del nostro mondo interconnesso si respirano quotidianamente. Come tutti i fenomeni più affascinanti, la globalizzazione è a dir poco controversa: possiamo difenderla sfacciatamente o metterne a nudo le ipocrisie. L’educazione internazionale ci dà quel giusto livello di cinismo per poterla criticare, ma, nello stesso tempo, per farne un processo più etico perché più giusto.
Di Alessia Maselli