In questo viaggio mensile tra le cartelle cliniche degli uomini e delle donne ricoverate a San Servolo, gli incontri organizzati, le visite al museo, i giri nell’isola e tra gli edifici che accolgono tuttora decine di persone che ogni giorno lasciano un’impronta su questo luogo ignari del dolore che ha serbato, sono rimasta colpita dalle storie di questa ordinaria sofferenza, ma ancora di più dalle parole. Perché le parole? Perché spesso sono talmente nude ai nostri occhi, talmente visibili e tangibili che per questo peccato di superficialità, non ci rendiamo conto di quello che nascondono, dei segreti che possono offrire. Parole che servono per esprimere concetti, che riempiono il vuoto, che svelano, ma nascondono gelosamente.
Le sedicenti descrizioni mediche presenti nelle diverse cartelle cliniche rispecchiano questo gioco misterioso in cui delle cose vengono dette, ma le parole, per l’ingiustizia del contesto inadatto in cui si trovano si difendono e trovano il modo di giungere allo spirito del lettore, trovano il modo di schiudersi e rivelare l’assenza di obiettività, trovano il modo di scusarsi per il ruolo disonesto che ricoprono.
In alcune cartelle, in particolare, ho trovato una ripetizione ossessiva di parole, che ogni volta che venivano ripetute rinnovavano le ferite e le bugie. Parole turgide di odio e di offese, inizialmente usate sotto le mentite spoglie di un resoconto affrettato e non riflettuto, ma che nella ripetizione maniacale e tormentosa tradiscono un preciso disegno mentale, che è quello di veicolare le emozioni dello scrivente, di iniettare il gusto del disprezzo e di screditare il dolore dei malati.
Ozioso, egoista, ripugnante, inetto, untuoso, strisciante, cattivo: tutte parole che ruggiscono con violenza animalesca se vengono lette nel contesto. Che strane parole per descrivere un paziente! E tra questi insulti, sorge in maniera imponente una successione di tre parole, anche loro ripetute senza tregua: “Nulla di nuovo”. A cosa si riferisce questo “nulla” e perché non è “nuovo”? Con quale grado di umanità si può nullificare qualcuno, banalizzare la sua sorte, fargli del male? Ma soprattutto come è possibile che tutto questo sia talmente ordinario da non essere nuovo? L’ebreo merita di essere sacrificato. È una condizione atavica la sua, congenita. Lui e il suo travaglio sono in un nesso figurale: il primo definisce e completa il secondo, e il secondo non può esistere senza il primo; il primo non significa solo sé stesso, è figura del secondo mentre il secondo è adempimento del primo e in qualche modo lo comprende. È questo che non è nuovo, ed è ancora questo che è talmente normale e banale da ricadere nel dominio del nulla, dello zero, del vuoto, dell’insignificante. Ma è questo che è falso, è questo segreto che le parole vogliono svelare, ed è nella loro nudità che si deve cogliere l’obbrobrio dei fatti per non negare l’esecrabile, per non familiarizzarsi con il nefando, semplicemente per non banalizzare il male.
In questo vortice negativo di parole, di volontà di male per il male, ma sotto la veste della terapia e della cura, spicca una parola in particolare. Ozioso.
Ozioso. Lo scrivo, lo guardo, lo dico. Perché proprio questo aggettivo, questi suoni, questi segni?
OZIOSO
Perché la O è un percorso, una strada, che non ha inizio e non ha fine. Come la vicenda di queste persone il cui inizio non si può carpire perché da un giorno all’altro crolla tutto, ma è difficile periodizzare questa catastrofe, questo rovesciamento. È una lettera che scende inesorabilmente, fino a toccare il fondo del rigo. Ma poi risale, trionfante. Tocca il fondo come questi uomini, senza nome, deumanizzati. Ma molti non si sono arresi, e sono risaliti trionfanti, sono risaliti con la schiena carica di esperienze crude e crudelmente vissute. Questo è il coraggio. Ogni andare ha il suo momento di crisi indispensabile per una rinascita. Bisogna cadere per potersi rialzare davvero. Mi domando come dopo mesi o anni di vita in questa San
Servolo ci si possa alzare. È forse anche questa una condizione congenita per queste vite? Un periodo di vita in un grembo arido che accoglie, maltratta, mente, ferisce. Come tutto questo può essere definito ozio? L’ozio è libertà. Oziare significa essere liberi, liberi di scegliere. A San Servolo non si viene per scelta libera, e nemmeno la si lascia scegliendo. I malati, quelli da curare dalla loro essenza di ebrei prima ancora di concentrarsi sulla pazzia, non scelgono nulla. “Per le leggi razziali il paziente divenne un paziente di mente, concorrendovi il patema per la perduta prosperità, l’umiliazione di dover dipendere, la denutrizione.” Sono le leggi razziali, sono le decisioni libere di altri uomini liberi a privarli della loro libertà, ma servendosi del linguaggio in modo sofistico e demagogo, ai malati viene attribuito l’aggettivo ozioso, garanzia di libertà.
Ma questa parola ci racconta molto altro. OZIOSO. Tre O. Tre cerchi perfetti, infiniti che paradossalmente possono essere quantificati, esattamente come quantificabile può essere il numero di pazienti e di ebrei di cui il dolore rimane infinito. È molto simbolico questo numero in questo contesto. Il 3 è il numero perfetto per eccellenza, simboleggia la creazione infinita. E il tre, per i malati oziosi di San Servolo, è il motore primo del dolore. Esso nullifica ulteriormente e infinitamente poiché nella lettera O si può superficialmente identificare lo zero. Lo zero è una O un po’ ovale, simile all’urlo di Munch: il dolore atroce di ogni segmento di vita, un suono deflagrante e continuo (la O è una di quelle lettere alfabetiche che si possono pronunciare in modo continuo) che deforma la posizione dell’ebreo nei confronti degli altri uomini, un’immensa sofferenza che diventa grido di sconfitta al cospetto del nulla, quel nulla che avvolge e torce le forme, comprime la psiche dell’ebreo fino a renderlo matto. Tre sono i figli di Noè: Cam, Jafet e Sem. Sem, si, lui. È Sem che darà origine alla “razza” camito-semitica, quella appunto degli ebrei.
Se si riesce ad uscire dalla O ci si imbatte nella Z. e per queste donne e questi uomini la Z è l’attrito, raschia, fa male. È la zolfoterapia, incessante anch’essa. La Z ha una storia singolare in quanto lettera dell’alfabeto: occupa il sesto posto nell’alfabeto greco, ma è l’ultima nell’alfabeto latino. Usata in un primo tempo come doppione della S, poi soppressa in quanto inutile, e nuovamente introdotta perché ricorrente nei grecismi, ma per non turbare l’ordine delle altre lettere, fu messa in fondo a tutte. In questo itinerario della Z, vedo in maniera limpida la storia degli ebrei: prima utili, servitori della patria, poi soppressi selvaggiamente nel tentativo di eliminarli dalla terra, e infine ri-introdotti assegnati ad un paese ad hoc in un tentativo di riconoscimento del male da loro subito, ma comunque relegati all’ultimo posto per non dover affrontare questo lato cupo della storia, per cercare di ripararsi dalla propria barbarie.
In verità la Z, messa là in fondo è un tentativo di non scendere a patti con se stessi e con la propria natura umana, con la I. La I è la stilizzazione estrema dell’uomo. Un segno verticale. Però sopra l’uomo, semplice tratto verticale, c’è il puntino. É l’unico elemento di tutto l’alfabeto che non appoggia sul rigo. Il punto sulla i sa volare. Più che cerchio, è sfera; più che completezza, è perfezione. La i di ozioso, come quella di vita, è un’occasione per riflettere su quel qualcosa che sta sopra l’uomo, sull’Altro, sul Divino. La i è dritta, semplice e sicura di sé. Non ha bisogno di piegarsi di fronte a nessuno. Il suo cappello le dà una certa originalità, ne definisce la personalità. Basta un piccolo colpo però a capovolgerla ed ecco un punto esclamativo, come un grido. Punto esclamativo: segnale di pericolo. La i è il lupo (Homo homini lupus) della selva oscura, il pericolo. Il pericolo che l’uomo può rappresentare per un altro uomo.
Questo pericolo è talmente vero e tangibile che si ricade di nuovo nella O. Un’altra. Un vuoto abissale in cui imputridisce la viltà e la cattiveria, che portano gli uomini a vedere in altri uomini delle bestie, degli animali.
È questa la caratteristica che ci porta alla S. Un segno che in esoterismo simboleggia la lotta e i tormenti. È l’iniziale di strisciante, un altro degli aggettivi attribuiti ai malati di San Servolo. Strisciante come un verme, o forse un serpente, ripugnante, simbolo del male. La S è, poi, un cammino nuovamente tortuoso e faticoso, fatto di curve e di risvolti. Può far smarrire la direzione, far perdere le posizioni raggiunte con fatica. E toglie le certezze. Toglie la fiducia nella sensibilità umana. Annulla i valori.
E di nuovo la O, il cerchio, la ciclicità. Ogni lettera è un copione teatrale che fa recitare labbra, lingua e denti. Movimento e suono. O… O… O… Cos’è se non un urlo? La O, questa lettera ambigua e paradossale, una vocale definita chiusa. Ma le vocali per definizione sono aperte: e allora, perché la O si chiude, chiude ed esclude? Ci lascia la bocca aperta: aprire per chiudere o chiudere per aprire? É lo stupore dell’incontrare se stessi, la paura di conoscere la propria animalità e crudeltà. Ma permette anche di aprire una realtà per ricavarsi uno spazio, aprirsi agli altri per lasciarli entrare, aprirsi alle storie dei malati di San Servolo per lasciarli entrare nelle nostre camere, che prima sono appartenute a loro e affrontare il loro dolore.
di Leaticia Ouedraogo