Giovanni’s Room (1956) è un romanzo di James Baldwin (1924-1987). Ambientato principalmente a Parigi, racconta della storia di David, giovane americano rifugiatosi in Europa per sfuggire ai condizionamenti sociali, e Giovanni, un italiano che si trova a lavorare in un bar che David frequenta spesso. Sebbene il romanzo affronti temi come l’identità, la percezione del tempo, il rapporto con la cultura che ci ha formati, l’alienazione sociale (per citarne solo alcuni), quando l’editore scoprì di cosa trattasse consigliò a Baldwin di bruciarlo.
Riempì il suo bicchiere e tornò alla posizione di prima, alla cassa. Sentii una stretta al petto.
“A la votre“, disse.
“A la votre.” Bevemmo.
“È americano?” chiese infine.
“Sì”, dissi. “Di New York.”
“Ah! New York è molto bella, mi dicono. È più bella anche di Parigi?”
“Oh, no”, dissi, “nessuna città è più bella di Parigi…”
“Sembra che la sola idea che un’altra possa esserlo sia sufficiente per farla arrabbiare”, sogghignò Giovanni. “Mi scusi. Non volevo essere eretico.” Poi, più sobriamente e come per fare ammenda: “Parigi deve piacerle molto.”
“Mi piace anche New York”, dissi, a disagio perché consapevole che la mia voce suonava sulla difensiva, “ma New York è molto bella in modo molto diverso.”
Aggrottò la fronte. “In che modo?”
“Nessuno”, dissi, ” che non l’abbia mai vista potrebbe immaginarla. È molto alta e nuova ed elettrica – emozionante.” Feci una pausa. “È difficile da descrivere. Fa molto… ventesimo secolo.”
“Pensa che Parigi non sia di questo secolo?” chiese sorridendo.
Il suo sorriso mi fece sentire un po’ sciocco. “Beh”, dissi, “Parigi è vecchia, ha molti secoli. Si sente, a Parigi, tutto il tempo che è passato. Non è quello che si sente a New York…” Stava sorridendo. Smisi di parlare.
“Cosa si sente a New York?” chiese.
“Forse si sente”, gli dissi, “tutto il tempo che deve venire. C’è una tale potenza, lì, tutto è in un tale movimento. Non si può evitare di pensare – io non posso evitare di pensare – a come sarà… tra tanti anni.”
“Tra tanti anni? Quando saremo morti e New York sarà vecchia?”
“Sì,” dissi. “Quando tutti saranno stanchi, quando il mondo – per gli americani – non sarà più così nuovo.”
“Non vedo perché il mondo dovrebbe essere così nuovo per gli americani”, disse Giovanni. “Dopotutto, siete solo dei migranti. E non avete lasciato l’Europa poi così tanto tempo fa.”
“L’oceano è molto vasto”, dissi. “Abbiamo condotto vite diverse dalle vostre, ci sono accadute cose che non sono mai avvenute qui. Di sicuro capisce come questo ci abbia resi un popolo diverso?”
“Ah! Se vi avesse reso solo un popolo diverso!” rise. “Ma sembra che vi abbia trasformato in un’altra specie. Non siete, vero, di un altro pianeta? Perché credo che spiegherebbe tutto.”
“Ammetto”, dissi con una certa foga – perché non mi piace che si rida di me – “che a volte possiamo dare l’impressione di pensare di esserlo. Ma non siamo di un’altro pianeta, no. E nemmeno lei, amico mio, lo è.”
Sogghignò di nuovo. “Non discuterò questa circostanza tanto sfortunata”, disse.
Rimanemmo in silenzio per un momento. Giovanni si spostò per servire svariate persone a entrambi gli estremi del bar. […]
Giovanni si rimise di fronte a me e cominciò a pulire il bancone con uno straccio umido. “Gli americani sono strani. Avete uno strano senso del tempo – o forse non avete alcun senso del tempo, non lo so. Il tempo sembra sempre una parata chez vous – una parata trionfante, come degli eserciti con i loro stendardi che facciano ingresso in una città. Come se, con abbastanza tempo, e non ne servirebbe molto, per gli americani, n’est-ce pas?” e sorrise, guardandomi beffardo, ma non dissi nulla. “Beh, dicevo”, continuò, “come se con abbastanza tempo e con tutta quella spaventosa energia e virtù che voialtri avete, tutto sarà sistemato, risolto, messo al proprio posto. E quando dico tutto”, aggiunse, cupamente, “intendo tutte le cose serie e terribili, come il dolore e la morte e l’amore, in cui voi americani non credete.”
“Cosa le fa pensare che non ci crediamo? E cosa crede lei?”
“Non credo in queste sciocchezze sul tempo. Il tempo è una cosa comune, come l’acqua per un pesce. Tutti siamo dentro quest’acqua, e nessuno ne esce, o, se lo fa, gli accade esattamente ciò che accade al pesce, muore. E sa cosa accade in quest’acqua, il tempo? Il pesce grande mangia il pesce piccolo. Tutto qui. Il pesce grande mangia quello piccolo e all’oceano non interessa.”
“Oh, per favore”, dissi. “Non credo questo. Il tempo non è acqua e noi non siamo pesci e si può scegliere di essere mangiati e anche di non mangiare… non mangiare” aggiunsi rapidamente, arrossendo leggermente di fronte al suo sorriso sardonico e compiaciuto “il pesce piccolo, naturalmente.”
“Scegliere!” esclamò Giovanni, distogliendo lo sguardo da me e parlando, sembrava, a un alleato invisibile che avesse origliato la nostra conversazione per tutto il tempo. “Scegliere!” Si voltò di nuovo verso di me. “Ah, lei è proprio americano. J’adore votre enthousiasme!“
“Io adoro il vostro”, dissi, con gentilezza, “sebbene sembri essere di una varietà più cupa del mio.”
“In ogni caso”, disse, bonariamente, “non vedo cosa si possa fare dei pesci piccoli se non mangiarli. A che altro servono?”
“Nel mio paese,” dissi, percependo una lotta sottile dentro di me mentre lo facevo, “sembra che i pesci piccoli si siano uniti e stiano sgranocchiando il corpo della balena.”
“La cosa non li renderà balene”, disse Giovanni. “L’unico risultato di tutto quello sgranocchiare sarà che non ci sarà più nessuna grandeur da nessuna parte, neanche sul fondo del mare.”
“È questo che ha contro di noi? Che non siamo grandiosi?”
Sorrise – sorrise come qualcuno che, messo di fronte alla totale inadeguatezza dell’avversario, è pronto a lasciar cadere l’argomento. “Peut-être.”
“Siete gente impossibile”, dissi. “Siete voi che avete ucciso la grandeur, proprio qui, in questa città, con le pavimentazioni. E poi parla di pesci piccoli…!” Stava facendo un gran sorriso. Smisi di parlare.
“Non smetta”, disse, sempre sorridendo. “Sto ascoltando.”
Finii il mio drink. “Voialtri avete scaricato tutta questa merde su di noi”, dissi, seccato, “e ora dite che siamo dei barbari perché puzziamo.”
La mia scontrosità gli fece piacere. “Lei è affascinante”, disse. “Parla sempre così?”
“No”, dissi, e abbassai lo sguardo. “Quasi mai.”
C’era qualcosa della coquette in lui. “Sono lusingato, allora”, disse, con improvvisa e sconcertante gravità, che conteneva comunque un’impalpabile traccia di derisione.
“E lei”, dissi, alla fine, “è qui da molto? Le piace Parigi?”