Mantua me genuit

“Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva,
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.”

Così il pastore Melibeo si rivolge al fortunato Titiro, che ha conservato le terre e può oziosamente godere della pace del mondo dei campi. Lui, invece, deve abbandonarla, vittima innocente della confisca di guerra. Publio Virgilio Marone, nato nel villaggio di Andes il 15 ottobre del 70 a.C., condivide con Melibeo la medesima sorte, avendo perso il podere avito a beneficio dei veterani come rappresaglia contro Mantova, rea di aver sostenuto i cesaricidi. Se nella tranquillità della campagna compone la raccolta “Bucoliche”, 10 poesie di genere pastorale ambientate nel mondo sereno e pacifico dell’Arcadia, tra Roma e Napoli stende le “Georgiche”, un manuale in poesia sulla coltivazione dei campi, l’allevamento del bestiame e la cura delle api in cui si esaltano i valori tradizionali del mos maiorum.

“Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste Penates
classe veho mecum, fama super aethera notus.
Italiam quaero patriam et genus ab Iove summo.”

L’opera che lo consacra come “il principe dei poeti di Roma”, tuttavia, è l’Eneide, il poema epico delle mitiche origini di Roma che lo stesso autore voleva fosse dato alle fiamme poiché incompiuto. Virgilio ingaggia una raffinata competizione innovativa con il poeta epico per eccellenza, il mitico Omero, già nella struttura dei dodici libri: i primi sei libri trattano del viaggio verso l’Italia, tracciando un parallelo con il viaggio avventuroso dell’Odissea, gli ultimi sei affrontano la guerra Latina, guardando al modello della guerra di Troia narrata nell’Iliade. Come nell’Odissea, inoltre, il poema non segue l’ordine cronologico, ma si apre “in medias res” e gli avvenimenti precedenti sono esposti come ricordi dal protagonista mentre risiede alla corte di Didone (“Infandum regina iubes renovare dolorem”).
Enea, mitico antenato della dinastia giulio-claudia a cui appartenevano sia Ottaviano che Cesare, fugge da Troia in fiamme caricandosi in spalla il padre Anchise e portando con sé il figlioletto Iulo, ma è costretto a lasciare indietro l’amata moglie Creusa in quanto destinato a sposare Lavinia, figlia dei re dei Latini, e dare vita ad una nuova stirpe (“Illic res laetae regnumque et regia coniunx / parta tibi; lacrimas dilectae pelle Creusae.”). Eolo, su comando di Giunone, scatena una tempesta e costringe la flotta troiana in fuga ad approdare a Cartagine, dove regna Didone. La regina si innamora perdutamente di Enea e, come questi la abbandona per seguire il proprio Fato, si suicida (“Dixit, et os impressa toro “Moriemur inultae, / sed moriamur” ait. “sic, sic iuvat ire sub umbras. / Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto / Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis”.”). L’eroe troiano riesce a raggiungere le coste italiche ed entra nei Campi Elisi per incontrare il padre, perito durante il viaggio, che gli illustra la progenie romana e gli profetizza le guerre da sostenere. Sbarcati alla foce del Tevere, infatti, i troiani si trovano a dover far fronte all’ostilità delle popolazioni fomentate da Giunione e guidate dal re dei Rutili Turno. Lo scontro è feroce e le perdite consumano entrambi gli schieramenti. Nella seconda parte del poema sono particolarmente degni di menzione i versi per la morte della guerriera Camilla, alleata di Turno, (“hactenus, Acca soror, potui: nunc vulnus acerbum / conficit, et tenebris nigrescunt omnia circum.”) e per la triste fine dei giovani Eurialo e Niso (“Tum super exanimum sese proiecit amicum / confossus placidaque ibi demum morte quievit.”). L’opera si conclude con l’uccisione di Turno (“hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit / fervidus; ast illi solvuntur frigore membra / vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.”), una scena di violenza e di morte che “riassume perfettamente le contraddizioni e la problematicità di tutto il poema virgiliano”.
Enea, infine, è un eroe “atipico”, non è l’ingegnoso Ulisse o Achille piè veloce, è unicamente “pius”, devoto, mosso da quella profonda pietas che è uno dei valori fondanti del mos maiorum.

“Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc
Parthenope; cecini pascua rura duces”

A Napoli entra in contatto con la filosofia epicurea, mentre a Roma viene invitato all’interno del circolo di Mecenate, un gruppo di letterati molto vicino ad Ottaviano che include anche Quinto Orazio Flacco e Sesto Properzio. La morte sopraggiunge improvvisa a Brindisi il 21 settembre 19 a.C., di ritorno da un viaggio in Grecia, non prima di raccomandare a Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto dell’Eneide. Dopo la morte, la fama del vate sarà tale da diventare la guida di Dante Alighieri nel viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio.

“O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.” 

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