“Der Vorleser” (1995) è un romanzo di Bernhard Schlink (1944), giurista che vive a Berlino e New York. Il romanzo racconta della relazione tra il quindicenne Michael e la trentaseienne Hanna nella Germania del secondo dopoguerra, un rapporto che avrà risvolti inaspettati nella vita futura di Michael. Nel 2008 ne è stato tratto un film diretto da Stephen Daldry, con Kate Winslet, Ralph Fiennes e David Kross.
Capitolo 12
Mentre non ho alcun ricordo della bugia che presentai ai miei genitori per il viaggio con Hanna, mi ricordo del prezzo che dovetti pagare per poter rimanere a casa da solo l’ultima settimana di vacanze. Non so più per dove fossero partiti i miei genitori e mio fratello e mia sorella maggiori. Il problema fu mia sorella più piccola. Sarebbe dovuta andare dalla famiglia di un’amica, ma se rimanevo a casa io, voleva restare a casa anche lei. E i miei non volevano. Quindi sarei dovuto andare anche io a casa di un amico.
Guardando indietro, trovo sia notevole che i miei genitori fossero pronti a lasciarmi, quindicenne, a casa da solo. Avevano forse notato l’indipendenza che si era risvegliata in me grazie all’incontro con Hanna? O avevano semplicemente registrato che avevo passato l’anno nonostante il mese di malattia e, da ciò, avevano concluso che ero responsabile e degno di fiducia, come avevo lasciato intendere fino a quel momento? Non ricordo neanche di essere stato chiamato a rendere conto delle molte ore che all’epoca trascorrevo da Hanna. I miei genitori credevano che, di nuovo in salute, volessi stare insieme agli amici, studiare insieme a loro, passare il tempo libero con loro. Inoltre, quattro figli sono un branco, nel quale l’attenzione dei genitori non può rivolgersi a tutto, ma si concentra su ciò che sul momento sta causando i principali problemi. Avevo dato a lungo abbastanza problemi; i miei erano sollevati che fossi di nuovo in salute e fossi passato alla classe successiva.
Quando chiesi a mia sorella che cosa volesse per andare dalla sua amica mentre io rimanevo a casa, lei pretese dei jeans – allora li chiamavamo Blue Jeans o pantaloni rivettati – e un Nicki, un pullover di ciniglia. La capivo. I jeans all’epoca erano ancora qualcosa di particolare, di chic, e per questo promettevano la liberazione dai completi a spina di pesce e dai vestiti a grandi fiori stampati. Come io dovevo portare le cose smesse di mio zio, così la mia sorellina doveva portare quelle di nostra sorella maggiore. Ma non avevo soldi.
“E allora rubali!” La mia sorellina fu impassibile.
Fu facile in modo sconcertante. Mi provai diversi Jeans, ne portai in camerino anche un paio della sua taglia e lo trasportai fuori dal negozio infilato nella vita dei pantaloni larghi del mio completo. Rubai il Nicki ai grandi magazzini. Un giorno mia sorella e io andammo a zonzo di banco in banco nel reparto di moda, fino a che non avemmo trovato il banco giusto e il Nicki giusto. Il giorno dopo mi precipitai a passi decisi attraverso il reparto, afferrai il pullover, lo misi al sicuro sotto la giacca ed ero già fuori di nuovo. Il giorno dopo rubai per Hanna una camicia da notte di seta, venni visto dal vigilante, me la diedi a gambe levate e gli sfuggii per un pelo. Non ho frequentato i grandi magazzini per anni.
Dopo le notti trascorse insieme durante la nostra gita, ogni notte mi mancava sentirla vicino a me, accoccolarmi contro di lei, il mio addome contro il suo sedere e il mio petto contro la sua schiena, appoggiare la mano sul suo seno, cercarla e trovarla con il braccio risvegliandomi durante la notte, spingere una gamba su una delle sue e premere il viso contro la sua spalla. Una settimana a casa da solo significava sette notti con Hanna.
Una sera la invitai e cucinai per lei. Stava in piedi in cucina, quando diedi gli ultimi ritocchi al cibo. Stava sulla porta a battenti tra la sala da pranzo e il salotto, quando portai in tavola. Si sedette al rotondo tavolo da pranzo, dove di solito sedeva mio padre. Si guardò intorno.
Il suo sguardo esaminò tutto: i mobili Biedermeier, i battenti della porta, l’alta pendola, i quadri, gli scaffali con i libri, posate e stoviglie sul tavolo. Quando la lasciai sola per finire di preparare il dessert, non la ritrovai a tavola. Era andata di stanza in stanza e si trovava nello studio di mio padre. Mi appoggiai silenziosamente allo stipite della porta e stetti a guardarla. Lasciava vagare lo sguardo sulle librerie che riempivano le pareti come se stesse leggendo un testo. Poi andò a uno scaffale, scorse lentamente con l’indice destro i dorsi dei libri all’altezza del petto, andò allo scaffale successivo, riprese a scorrere con il dito, dorso dopo dorso, e passò in rassegna tutta la stanza. Vicino alla finestra si fermò e guardò nell’oscurità il riflesso delle librerie e il proprio.
È una delle immagini di Hanna che mi sono rimaste. Le ho immagazzinate, posso proiettarle su uno schermo interiore e contemplarle, immutate, intatte. A volte non ci penso per lungo tempo. Ma mi tornano sempre alla mente, e può essere che poi debba proiettarle e contemplarle più volte, una dietro l’altra, sul mio schermo interiore. Una è Hanna che si infila le calze in cucina. Un’altra è Hanna in piedi davanti alla vasca da bagno che tende con le mani l’asciugamano. Un’altra ancora è Hanna che va in bicicletta e la cui gonna sventola nella sua scia. Poi c’è l’immagine di Hanna nello studio di mio padre. Ha un vestito a righe blu e bianche, uno di quelli che all’epoca si chiamavano chemisier. Con quel vestito sembra giovane. Ha scorso con il dito i dorsi dei libri e ha guardato i riflessi nella finestra. Ora si volta verso di me, abbastanza veloce che la gonna si solleva per un breve momento intorno alle sue gambe, prima di pendere di nuovo diritta. Il suo sguardo è stanco.
“Sono libri che tuo padre ha solo letto o anche scritto?”
Sapevo di un libro di mio padre su Kant e di uno su Hegel, cercai e trovai entrambi e glieli mostrai.
“Leggimene un pezzetto. Lo faresti, ragazzino?”
“Io…” Io non volevo, ma non volevo neanche rifiutarmi di esaudire il suo desiderio. Presi il libro di mio padre su Kant e le lessi un passaggio sull’Analitica e la Dialettica, che nessuno dei due capì. “Basta?”
Mi guardò come se avesse capito tutto o come se non le importasse che cosa si capiva oppure no. “Un giorno scriverai anche tu libri di questo genere?”
Scossi il capo.
“Scriverai altri libri?”
“Non lo so.”
“Scriverai opere teatrali?”
“Non lo so, Hanna.”
Lei annuì. Poi mangiammo il dessert e andammo da lei. Avrei dormito volentieri con lei nel mio letto, ma non voleva. A casa mia si sentiva un’intrusa. Non lo disse a parole, ma con il modo in cui stette in piedi in cucina o sulla porta aperta, andò di stanza in stanza, passò in rassegna i libri di mio padre e si sedette con me a mangiare.
Le regalai la camicia da notte. Era color melanzana e aveva le spalline sottili, lasciava scoperte le spalle e le braccia e arrivava fino alle caviglie. Splendeva e scintillava. Hanna ne fu felice, sorrise raggiante. Si rimirò, si voltò, ballò un paio di passi, studiò brevemente il proprio riflesso allo specchio e ballò ancora. Anche questa è un’immagine di Hanna che mi è rimasta.