“What would you think if someone would play a kitchen table like it were a piano? […] It’s strange, isn’t it? I mean, it’s not a piano, it… doesn’t make any sound”
Lezioni di piano (The Piano, 1993) è un film della regista neozelandese Jane Campion. Ambientato durante la metà dell’Ottocento, racconta la storia di Ada (Holly Hunter), una donna scozzese che viene data in moglie dal padre ad Alisdair Stewart (Sam Neill), un possidente della Nuova Zelanda che non ha mai visto prima. Ada è muta, ma comunica attraverso il linguaggio dei segni, laconici bigliettini e la figlia Flora (Anna Paquin), con cui ha una relazione strettissima e che costituisce la sua vera e propria voce, dato che è l’unica in grado di interpretare e riportare i gesti della madre (anche se intuiamo che a volte rielabora i messaggi originali). Quando le due arrivano in Nuova Zelanda, Stewart decide di portare nella loro nuova casa tutte le suppellettili che hanno portato, salvo il pianoforte di Ada. Il dover ricorrere a George Baines (una sorta di dipendente di Stewart che si è integrato molto più degli altri coloni nella realtà indigena e naturale, interpretato da Harvey Keitel) per poter tornare a suonare e riavere il piano darà il via a una relazione adulterina e agli ulteriori sviluppi della vicenda.
Il titolo della pellicola è The Piano perché Ada, muta dall’età di sei anni, esprime attraverso il pianoforte tutta la propria interiorità. Il suo silenzio viene sostituito da stratificazioni di suono, da una ricchezza che la voce umana non è in grado di riprodurre e neanche di comprendere pienamente. Non a caso la musica è stata considerata da filosofi di ogni epoca come uno strumento per avvicinarsi alla vera essenza delle cose, proprio in virtù della sua astrazione (per Schopenhauer è l’«unica arte che va oltre la materia» ed «esprime l’essenza stessa del pensiero e dell’esistenza»): la sua difficoltà, la sua irriproducibile densità la rendono strumento ideale e al contempo criptico della complessità, in questo caso interiore. Il lavoro del compositore Michael Nyman è quindi fondamentale per il film, e il fatto che Holly Hunter abbia effettivamente suonato durante le riprese sottolinea come la musica sia un elemento essenziale per il personaggio di Ada.
Per quanto offra spunti di riflessione innumerevoli, che hanno trovato ampio respiro di analisi, è proprio sulla difficoltà a comunicare che sembra centrarsi il film: il silenzio di Ada e la sua necessità di ricorrere a una serie di espedienti per farsi comprendere, il fatto che le sue azioni, in questo silenzio, vengano fraintese e lasciate all’interpretazione degli altri per essere chiarite – tutto ciò non è che sottolineato per contrasto dal carattere forte di questa piccola donna, apparentemente così fragile ma nel profondo tanto complessa.
L’incomunicabilità è legata anche alla capacità di “ascoltare”, di vedere, degli altri personaggi. Il marito Stewart è incapace di comprendere Ada perché vorrebbe che fosse diversa, che rispondesse alle sue aspettative, e in particolare non riesce a capire l’importanza del piano per la moglie. Anche Baines, soprattutto all’inizio, non riesce a comprenderla pienamente: Ada non è come le altre, desidera, cerca, esplora, non può essere solo un oggetto di desiderio come lui si aspetterebbe. È una donna dotata di una volontà propria, una volontà forte, anche inflessibile, e non permette che la si costringa a un ruolo o alla soddisfazione di aspettative cui non vuole conformarsi. La relazione tra i due è tanto più particolare a causa del fatto che l’analfabetismo di Baines rende impossibile ad Ada usare i biglietti: il loro è un costante contatto, un legame di sguardi, tatto, musica, più intenso e più fraintendibile di una relazione che si fondi anche sulle parole. Come la musica di Ada, anche il loro rapporto è al contempo brutalmente innocente e potenziale fonte di incomprensioni innumerevoli.
Un elemento curioso a questo proposito è il fatto che, a quanto pare, Ada abbia in un certo senso scelto il mutismo, e abbia da quel momento cominciato a suonare, senza però essere ben consapevole delle ragioni di questa decisione (è lei stessa a confessarcelo). Come se da bambina avesse inconsciamente stabilito che le parole non sono sufficienti per comunicare davvero, e, con la sua volontà d’acciaio, si fosse risolta a trovare un mezzo altro per esprimersi. Il suo essere sotto moltissimi aspetti diversa dalla donna convenzionale della sua epoca (Flora non è figlia di un matrimonio legittimo, il carattere di Ada è estremamente forte e testardo, ed ella si rifiuta di smettere di incontrare Baines anche quando il marito viene a sapere della loro relazione) rende ancora più difficile la comunicazione. È solo attraverso un gioco di volontà – la propria e quella altrui – che Ada riesce a dialogare con il mondo e a scegliere quando sia arrivato il momento di mettere da parte questo silenzio così denso per arrivare a un dialogo più tradizionale. Eppure, dalla conclusione sappiamo che, a volte, rimpiange quella comunicazione più diretta e al contempo più faticosa.
The Piano è un film che si presta, come già detto, a più prospettive di analisi (quella del simbolismo, del rapporto tra madre e figlia, del rapporto con la natura, del colonialismo, della microsocietà rappresentata, ecc.), ma è la difficoltà tutta umana del dialogo a essere trasmessa con più forza, anche con violenza. Ogni tipo di comunicazione si rivela fallace in un aspetto o nell’altro, e sembra sempre che ci sia un mezzo migliore e più efficace per esprimere il nostro sentire, quando in realtà il codice usato ha senso solo se condiviso e compreso da entrambe le parti, eventualità rara e assai faticosa da realizzare.