“Cosa può esserci di più suggestivo che assistere, nella città dove è ambientata, alla rappresentazione del Mercante di Venezia degli attori dello Shakespeare’s Globe?”
Con questa domanda, un po’ retorica, in mente, ho preso posto sulla mia comoda poltroncina in terzo ordine (prima che la confondiate per ironia, sappiate che la visuale era ottima) al teatro Goldoni. Si capisce bene che le mie aspettative erano alte; l’unico mio timore, come è comprensibile, era quello di annoiarmi un po’ nelle tre ore di durata previste.
Ma non ne ho avuto il tempo, tanto ero impegnata a non perdermi neanche un movimento sulla scena e, soprattutto, a ridere di gusto: sul palco era tutto un fioccare di frasi argute e di scene
esilaranti, intervallate da momenti di grande tensione drammatica che lasciavano l’intero teatro ritto sulle sedie, sospeso in apprensione.
Non è semplice rendere divertente un testo tanto lontano da noi nel tempo. Significa non soltanto scandagliare con precisione minuziosa ogni battuta per scovare quelle scintille di umorismo che non brillano di sagacia ad un’occhiata superficiale; ma soprattutto, credere di poter trovare nel testo un’umanità che è rimasta la stessa attraverso i secoli. Forse ora si esprime con un linguaggio diverso e conosce nuove realtà: ma messa di fronte alla propria immagine allo specchio non può che riconoscersi.
Non è sempre un ricongiungimento felice; come esseri umani siamo anche meschini e gretti, e Shakespeare così ci ha dipinto in questa tragedia. Siamo capaci di un odio violento nei confronti di chi ci sembra diverso da noi, che si tratti di personaggi davvero degni di disprezzo o no. Lo stesso Antonio, che è capace senza rimpianti di mettere in gioco la propria vita per amicizia (o per amore, che sia), un uomo rispettabile, generoso, caritatevole, può sputare in faccia ad un altro uomo per la sua etnia e religione, può chiamarlo “cane” sentendosi nel giusto. Così si comporta anche la bella e intelligente Porzia: salva l’amico del marito da una condanna ingiusta, ristabilisce la giustizia ma si abbandona poi alla deriva dell’intolleranza. Con la sua sentenza finale il vecchio Shylock – per la cui mancanza di pietà una pena sarebbe comunque stata inevitabile – dovrà rinunciare il proprio credo.
Risentimento, rabbia, desiderio di vendetta sono i motori dell’azione scenica. L’amore è una presenza astratta, dietro a cui si maschera altro – basti pensare al millantato amore di Bassanio per la moglie, che, tante volte proclamato, non emana che pallidamente dalla scena, in confronto alla forza vigorosa dell’odio che si percepisce tangibile in più tratti dell’opera. Dell’amore Shakespeare ha voluto qui rappresentare, nella figura derelitta del martire Antonio, soltanto l’impossibilità, quella nobiltà in fondo inadatta a sopravvivere al mondo.
La materia teatrale è insidiosa, scivola fra le dita dello spettatore, non si lascia catturare da un giudizio. Non ci sono buoni e cattivi e non si può scegliere un eroe per cui parteggiare. Tutti sono capaci di suscitarci ribrezzo e poi ammirazione; ci commuoviamo per il monologo struggente dell’usuraio alla disperata ricerca di solidarietà, un attimo dopo lo chiamiamo assassino.
Siamo così anche noi: possiamo raggiungere le vette più alte della virtù e sprofondare nelle peggiori bassezze. Non ci resta, davanti alla nostra caricatura sulla scena, che imparare a prenderci un po’ in giro.